Michele di Mauro racconta cosa significa essere un docente di latino negli USA nel suo libro “Hey, sembra l’America”

L’anno scolastico 2020-21 si è concluso da circa un mese. È stato un anno impegnativo, caratterizzato dall’alternarsi di momenti di in presenza con le scolaresche dimezzate, e a distanza, durante i mesi della “zona rossa”. A giugno una stanchezza ancora più intensa di quella degli anni precedenti e un impellente bisogno di fuga serpeggiavano tra i banchi, unitamente ad un desiderio di “normalità” e ad una serie di interrogativi sul futuro che la chiusura delle attività didattiche ha interrotto bruscamente.

Mi sono volutamente lasciata alle spalle tutto questo, rivolgendo i miei pensieri altrove… ma, proprio in un’occasione di “relax”, vale a dire il concerto di Thom Chacon a Cantù il 4 luglio scorso, ho conosciuto Michele Di Mauro, insegnante di latino a Baltimora, che ha introdotto la serata musicale con la presentazione del suo libro “Hey, sembra l’America”. La sua testimonianza mi ha condotto a formulare una serie di considerazioni su che cosa significhi insegnare oggi, in un contesto complesso come quello creato dalla pandemia. Sono inoltre rimasta colpita dal fatto che un docente all’incirca mio coetaneo abbia deciso di lasciare l’Italia dieci anni fa per insegnare latino negli Stati Uniti e che, nonostante le differenze culturali tra i due Paesi, la nostra esperienza di insegnamento in una scuola superiore possa avere molti più punti in comune di ciò che comunemente si potrebbe immaginare.

Così io e Michele abbiamo deciso di tenerci in contatto per scambiarci riflessioni ed esperienze; dal nostro incontro è nata questa intervista.

Ciao Michele, innanzitutto grazie per la tua disponibilità al confronto.

Il tuo blog excathedra20.blog, in cui hai narrato le vicende del docente Mr. D. e dei suoi studenti nell’immaginaria Silvana High School in North Carolina, è prima diventato una trasmissione su Radio Popolare, poi un libro edito da Battaglia Edizioni, ed è già pronto il suo seguito, ambientato durante il lockdown ed il periodo della didattica a distanza.

In un momento in cui il sistema scolastico è chiamato a dare delle risposte in un contesto sempre più complesso, il positivo riscontro da te ottenuto è indice del fatto che la scuola ed il rapporto docente/discente sono argomenti che suscitano sempre grande interesse, nonostante tutto… Sei d’accordo?

Assolutamente! La scuola, specialmente quella pubblica e gratuita, viene spesso vista con scetticismo dai contribuenti. Troppo spesso svalutata e sminuita, utile solo per qualche slogan elettorale, rimane suo malgrado il centro della vita sociale delle nostre comunità. Di scuola viviamo e ci nutriamo, e poco importa se lo facciamo da studenti svogliati o da genitori scettici. C’è un passaggio nel libro che sottolinea questa dicotomia tra le aspettative sulla scuola e la percezione reale che abbiamo di essa.

Le fa­miglie premono, minacciano, esigono figli super preparati per il college, salvo poi denigrare i docenti e ritenere che siano troppo pagati. È il contribuente che fa a cazzotti con il genitore, l’uovo che rinnega la gallina.

La tua formazione come insegnante è stata un percorso complesso e denso di sfide educative. Hai infatti lavorato inizialmente come educatore in Brianza, poi durante i tuoi studi universitari hai operato e abitato presso una casa-famiglia a Torino, in una zona di degrado e immigrazione. Sicuramente hai maturato, tramite queste esperienze, una sensibilità particolare che si evince da quanto scrivi, dall’attenzione che il tuo personaggio dimostra verso le persone in difficoltà… vorresti parlarci di questo aspetto?

Sì, ottima sintesi, grazie. L’insegnamento è una di quelle professioni nelle quali si riceve molto più di quello che si dà, basta ascoltare. Ritengo che l’insegnamento sia per il venti per cento un lavoro basato sulla trasmissione di nozioni e per l’ottanta per cento centrato sulle relazioni umane, non sempre facili. Seneca ha forse sintetizzato questa idea nel modo più cristallino: “Accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre s’insegna si impara.”

Dopo aver insegnato per alcuni anni scolastici in istituti superiori del Comasco, ti sei trasferito negli USA per insegnare latino, e anche questa a mio avviso è una sfida, perché una materia del genere, una “lingua morta”, per quanto ricchissima di valenze culturali, non deve essere facile da proporre a degli studenti anglofoni …

La lingua latina nei paesi anglofoni è molto rispettata, anche se ultimamente sta assumendo dei connotati politici non indifferenti. Il latino era la lingua della classe bianca e ricca, quella che ha colonizzato il Nuovo Mondo. Non è un caso che il motto degli Stati Uniti d’America sia in latino: ‘E pluribus unum’, così come quello della maggior parte dei cinquanta stati fondatori. L’idea di poter insegnare latino in una scuola pubblica e restituirlo alle minoranze, recuperandone il suo lato cosmopolita, mi riempie d’orgoglio.

Ho preso in prestito le parole di Vasco Rossi per intitolare questo articolo volendo dare una “risposta” ironica al titolo del tuo libro, ma leggendolo mi sono resa conto che, anche se “non siamo mica gli americani”, le somiglianze tra le due realtà scolastiche sono significative tanto quanto le differenze.

Tu affermi, ad esempio, che l’intento del tuo romanzo non è tanto quello di parlare degli Stati Uniti, ma di ridare dignità all’insegnamento. In Italia si ha spesso la sensazione che la figura del docente venga svalutata e che la scuola pubblica sia bersaglio di numerose critiche, peraltro non sempre imputabili a chi vi presta servizio, ma piuttosto alle scelte politiche… negli USA è quindi la stessa cosa?

Quando mi sono trasferito in Maryland, pensavo che la sfiducia nella scuola pubblica fosse un male endemico tutto italiano; dopo dieci anni di insegnamento in USA ho forse capito che la sfiducia nella scuola è un problema comune alla maggior parte dei paesi occidentali. Provate a fare questa domanda a dei genitori che hanno figli in età pre-universitaria: saresti orgoglioso se tuo figlio diventasse un professore? Poi non concentratevi sulle loro risposte di circostanza ma sulle loro facce…

Come scrivo in un passaggio del libro:

Ecco…

Fare l’insegnante…

Svegliarsi alle cinque e quarantacinque.

Fare l’insegnante…

Arrivare a scuola alle sette e trenta.

Fare l’insegnante… Passare i weekend in compagnia di una ri­sma di fogli da correggere. Fogli che diciamocelo, spesso sono un insulto alle leggi della fisica, della logica e della gravità.

Fare l’insegnante…

Leggere negli sguardi di chi insegnante non è, un senso di disagio.

Ma come glielo spieghi a chi non ha mai insegnato cosa signi­fica fare l’insegnante… ‘Non scholae, sed vitae discimus’.

Uno dei personaggi del libro, Mr. Cummings, si rivolge al protagonista, Mr. D., dicendogli che il compito dei docenti non è, secondo “le famiglie che pagano le tasse”, quello di insegnare agli adolescenti, bensì quello di intrattenerli… Si tratta di un’ironica esagerazione o è davvero così?

È naturalmente una provocazione, non tanto rivolta alle famiglie ma agli insegnanti che troppo spesso per primi, qui in USA come in Italia, si commiserano da soli, senza dignità… per una scuola migliore bisogna prima di tutto avere insegnanti migliori, orgogliosi di esserlo.

In uno dei suoi monologhi interiori Mr. D. afferma: “Sono un insegnante mai cresciuto. Ho abdicato alla vita adulta confondendomi tra gli adolescenti, nascondendomi tra i banchi di scuola nell’illusione che gli alunni possano invecchiare al posto mio, nella speranza di accorgermi tutto d’un tratto di essere diventato vecchio senza essere invecchiato”. Quanto di tuo c’è in questo pensiero?

Tutto e niente. Raramente mi è riuscito di scrivere una pagina così cristallinamente precisa al primo tentativo; nel processo di scrittura, quando cerchiamo di trasferire i nostri pensieri sul foglio, c’è sempre un processo entropico, come se l’idea originale perdesse parte della sua purezza nel passaggio dalla mente al foglio. Chissà… forse anche per questo Pier Paolo Pasolini alla fine del Decameron dice: ‘Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?.’

Personalmente, avrei potuto riconoscermi in questo atteggiamento fino a cinque anni fa, poi – con il trasferimento nella mia scuola attuale ed una serie di cambiamenti che hanno accompagnato la mia esistenza – mi sembra di essere cresciuta di colpo e di mantenere molto di più le distanze, a livello emotivo, dagli studenti. Dopo vent’anni e passa trascorsi dietro una cattedra mi sembra di essermi anche un po’ inaridita… il passare del tempo che effetto ha avuto su di te, come docente?

Ti capisco perfettamente, solo chi ha insegnato secondo me può capirlo… a me ha aiutato a capire e rileggere i miei errori umani ed educativi. Uno dei motivi per cui ho deciso di abbandonare l’Italia e la scuola italiana nasce da una crisi profonda…. mi ero accorto di non avere più stimoli, avevo bisogno di una nuova sfida educativa e qui in Maryland penso di averla trovata. Non c’è niente di peggio che vedere un insegnante che si ascolta insegnare…

L’anno scolastico statunitense sembra essere scandito da una serie di eventi sociali (la festa di settembre, la cerimonia degli anelli, il ballo di fine anno) che noi italiani siamo abituati a vedere nei film: è dunque davvero così? Quanto importanti sono queste occasioni per gli adolescenti degli USA?

L’aspetto più interessante del calendario scolastico americano è sicuramente legato ai riti di passaggio, sociali, sportivi, culturali…. Queste cerimonie di iniziazione hanno un’importanza sociale indescrivibile. Paradossalmente le restrizioni per il contenimento della pandemia hanno arrecato molti più danni sociali che didattici. Privare una generazione di studenti della cerimonia degli anelli, del “prom” o della “graduation” è stata uno shock indescrivibile da queste parti.

Uno dei personaggi del libro, “officer” Rizzo, l’addetto alla sicurezza nella scuola, perde la vita in uno scontro a fuoco e la sua scomparsa viene narrata in modo “onirico” da Mr. D. Figure di questo tipo sono presenti in tutte le scuole americane?

Ho volutamente mantenuto la vicenda di Officer Rizzo sul piano onirico, senza neppure spiegare come sia morto…La storia si ispira alla poesia ‘Mayakovsky ‘ di Frank O’Hara (Baltimore 27/3/1926 – New York 25/7/1966).

Ora sto pacatamente aspettando
che la catastrofe della mia personalità
sembri bellissima di nuovo,
e interessante, e moderna.
La campagna è grigia e
marrone e bianca sugli alberi,
nevi e cieli di risate
si affievoliscono man mano, meno salaci
non solo più scuri, non solo più grigi.
Forse è il giorno più freddo dell’anno,
cosa ne pensa lui?
Voglio dire, cosa ne penso io? E se ci penso,
forse sono di nuovo me stesso.

La storia si apre in un diner americano, in uno snodo trafficato di quell’America anonima e sbiadita, quasi dimessa, che si stende a perdifiato nei sobborghi a ridosso delle grandi città. Eppure, l’idea di menzogna è lì, tra le pieghe di una vicenda che invece di dipanarsi si va attorcigliando, mentre Mr. D. si ostina a non voler capire. L’imprevedibile ribaltamento della situazione iniziale giunge improvviso, ancorché gradualmente preparato dai dialoghi (lo si capisce a posteriori), parallelamente all’incessante crescere della luce del sole attraverso le ampie vetrate. E il verbo chiave del racconto e quel “capire” più volte coniugato in prima e terza persona, quasi ad accompagnare la graduale presa di contatto con una realtà, che alla fine risulta comprensibilissima nella sua oggettività, non però nelle sue motivazioni, e che in conclusione, anche per il tradimento di una precedente promessa, lascia disorientati tutti, in primis l’autore… Officer Rizzo che non è morto in uno scontro armato…

Un altro episodio che mi ha colpito è quando Mr. D. deve fare una supplenza in una classe, situata in un sotterraneo della scuola, in cui l’utenza è molto diversa e più problematica in confronto agli studenti che normalmente seguono le sue lezioni. È una norma che negli istituti statunitensi “convivano” classi di livelli culturali e sociali differenti?

Le cose stanno cambiando, anche se molto lentamente. Il problema principale è che le scuole sono legate al territorio, nel senso che gli studenti devono frequentare l’istituto del loro quartiere. Va da sé che se uno studente vive in un quartiere disagiato frequenterà scuole peggiori interagendo con studenti del suo stesso livello socio economico.

Un capitolo del libro riguarda l’”osservazione” dell’operato del docente da parte di un gruppo di amministratori. “Con tre osservazioni insufficienti un insegnante può essere messo alla porta, con buona pace dei sindacati e della sacralità del posto fisso” hai scritto. È una prassi abituale?

Le osservazioni esistono e spesso sono il modo più veloce per sbarazzarsi di insegnanti inadeguati. Questo succede però soprattutto ai neoassunti, fortunatamente qui in USA come in Italia anche l’insegnamento è un lavoro a tutele crescenti…

La tua ironia si scaglia contro un’altra pratica, quella dell’elezione del “teacher of the year”, che Mr. D. sarcasticamente paragona a Miss America: ma queste cose avvengono davvero?

Sì, la cultura americana è molto meritocratica, premiare l’impiegato del mese, il segretario del mese… l’insegnante del mese rientra in quell’idea che l’”American Dream” sia davvero realizzabile per tutti, politica a parte.

La didattica a distanza, scelta (apparentemente) obbligata in tempo di pandemia, è stata da noi al centro di un accesissimo dibattito per svariate ragioni, tra le quali l’accesso alle lezioni: nelle aree più disagiate, infatti, molti studenti non avevano accesso alla connessione internet e ai dispositivi multimediali. Questa tematica sarà l’argomento del to prossimo libro. Ritieni che le problematiche emerse in Italia siano simili a quelle che hai vissuto con i tuoi studenti?

Il mio prossimo libro si chiamerà Insegnare alle ombre. Le vicende seguiranno l’arco temporale che va da marzo 2020 a giugno 2021, seguendo un verosimile calendario scolastico americano che si intreccia inevitabilmente con la cronaca di questi anni, dalla pandemia alle elezioni, alle proteste del movimento Black Lives Matter. Le storie sono state pubblicate in anteprima sul blog excathedra20.blog e qualche volta ospitate da Italians – Corriere della Sera. Da novembre a dicembre alcune storie sono anche andate in onda su Radio Popolare.

Il libro narrerà i difficili mesi di DAD nelle scuole statunitensi e dei cambiamenti epocali di questo biennio, dal privilegiatissimo punto di vista di un insegnante italiano trapiantato in USA e dei suoi alunni di una scuola superiore di un sobborgo americano. Ritengo che la DAD sia stata una grandissima opportunità sociale e didattica per provare qualcosa di nuovo e secondo me ne capiremo la portata tra molti anni. Nel frattempo a me pare che, come spesso accade, non abbiamo saputo sempre fare di necessità virtù. Questo è in sostanza quello che proverò a spiegare nel mio prossimo libro.

A conclusione di questa chiacchierata con Michele vorrei riportare un passo di Seneca che chiude uno dei capitoli del libro: Omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est.

Tutto è di altri, soltanto il tempo ci appartiene. Tempo della scuola, tempo del lockdown, tempo trascorso viaggiando, leggendo, ascoltando… tempo per le riflessioni esistenziali, tempo di riprendere la vita nelle proprie mani… sono tutte accezioni dello scorrere del tempo che ho disseminato nelle pagine virtuali di questo blog. A volte il confronto con qualcuno che vive parte del proprio tempo in maniera simile alla nostra può aiutarci a riscoprire il valore di ogni singolo istante.. Carpe diem, dunque, e ancora grazie a Michele Di Mauro per questa opportunità.