La biografia del bluesman vogherese firmata da Serena Simula ne restituisce un ritratto autentico e dinamico

«Cos’è il blues, Fabrizio?»
«Il blues è rabbia, dolcezza, disperazione, tenerezza. Il blues non è una legge o una religione, ma è qualcosa che appartiene all’intimo dell’essere umano: alla passione. E poiché la passione è qualcosa che sta dentro il cuore di ognuno di noi, non ha regole, né tantomeno si può spiegare».

Se, davvero, il blues non si può spiegare, “Believe – Conversazioni con Fabrizio Poggi” è un libro in cui l’essenza di questa musica si coglie, si percepisce, si respira attraverso il racconto di uno dei principali bluesman italiani contemporanei, supportato da domande e riflessioni, quelle di Serena Simula, che fanno emergere un ritratto intenso ed autentico del musicista.
Il volume, edito da Arcana, è nato da una serie di incontri tra Poggi e la giornalista che, dopo aver scritto in passato molti articoli su di lui per un quotidiano pavese, ha avvertito l’esigenza di indagare fino in fondo la vita e l’opera di un personaggio dalla lunga carriera, costellata di innumerevoli riconoscimenti a livello internazionale, l’ultimo dei quali è il titolo di Cavaliere del Lavoro per meriti artistici attribuitogli con decreto del 2 giugno 2024 dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Le conversazioni, sorprendentemente, non sono mai state registrate: come i reporter d’altri tempi, Serena ha infatti voluto affidare agli appunti, ai ricordi e alle proprie sensazioni il clima amichevole e caloroso creatosi durante i suoi dialoghi con il musicista vogherese ed è riuscita in modo esemplare a tratteggiare un profilo dinamico del Poggi artista e uomo, dando vita ad una biografia appassionante come un romanzo.
Il racconto ha inizio dall’infanzia un po’ travagliata di Fabrizio, tra bullismo e insuccessi scolastici, periodo che ha termine con il suo ingresso in fabbrica a soli 14 anni. È in età adolescenziale che Poggi forma la sua prima band e prosegue la propria attività di chitarrista e cantautore “impegnato” per circa un decennio, fino all’infortunio sul lavoro che rivoluziona la sua vita: a 25 anni un incidente al braccio lo costringe infatti ad un lungo periodo di immobilità durante il quale, non potendo suonare la chitarra, si rivolge ad un altro strumento, l’armonica, che da allora è il suo principale mezzo espressivo.
Successivamente – siamo a metà anni Novanta – Poggi fonda i Chicken Mambo, formazione blues con i quali, dopo i primi esperimenti in studio di registrazione, vola ad Austin, Texas, per far sì che il loro sound su disco sia davvero quello “giusto”. Ed è così che ha inizio la lunga storia d’amore del musicista con gli Stati Uniti, che ha toccato il suo vertice con un concerto alla Carnegie Hall al fianco del bluesman newyorchese Guy Davis nel 2016 e con la candidatura del loro album “Sonny and Brownie’s Last Train” ai Grammy Awards e ai Blues Music Awards di Memphis due anni dopo.

Guy Davis e Fabrizio Poggi sul “red carpet” dei Grammy Awards nel 2018

La narrazione prosegue con le considerazioni suscitate dalla lettura degli appunti di Fabrizio consegnati alla sensibilità di Serena. Ed è inevitabile per lei interrogarsi, insieme ai lettori, su quale sia l’autentica natura del genere musicale al quale Fabrizio ha dedicato la maggior parte della propria attività.
Secondo Poggi il blues è un miracolo che cura l’anima: può dare voce alla rabbia, lenire la malinconia e, soprattutto, ha una componente magica e una capacità taumaturgica. In Africa, poi, secondo alcune tradizioni il colore blu è legato alla capacità di introspezione, al potere di vedere al di là dei limiti del mondo reale, e personaggi come Robert Johnson, B.B. King, Muddy Waters, Howlin’ Wolf erano indubbiamente dotati di questa facoltà. Ma il blues è anche un’infinita e struggente canzone d’amore, un sentimento intenso, sensuale, passionale e a volte distruttivo, mentre le canzoni nate in questo ambito sono fatte di whiskey di contrabbando e bevande micidiali, di dadi e carte truccate, di armoniche a bocca, pistole e coltelli, di chitarre suonate facendo scorrere colli di bottiglia spezzati sul loro manico… Esso, infine, è un ingrediente indispensabile della vita e dell’universo: l’ottavo giorno, Dio ha creato il blues.

foto di Mario Rota

Un altro capitolo fondamentale del racconto è quello della storia d’amore tra il musicista e la moglie Angelina, dal loro primo incontro alle nozze e poi alla convivenza, durante la quale hanno condiviso tutte le tappe, anche le più impegnative, del percorso umano ed artistico di Fabrizio. La loro intesa è totale: lui l’ha guidata ad essere se stessa, a conquistare la propria libertà ed autenticità, mentre lei lo ha sostenuto in tutti gli aspetti, anche pratici, della sua carriera. E, in molti punti, la conversazione a due si fa davvero un dialogo a tre, con la consorte – alla quale Fabrizio ha dedicato un album, “Songs for Angelina”-  a volte coprotagonista, a volte discreta presenza, ma ingrediente indispensabile nell’alchimia dell’universo personale e musicale di Fabrizio Poggi.
La narrazione non rifugge dagli aspetti più intimi e dolorosi, come il problema della depressione che, da condizione latente, è emersa improvvisamente nei primi anni Duemila, periodo nel quale il musicista ha dovuto momentaneamente interrompere la propria attività. In procinto di trasferirsi negli Stati Uniti, egli aveva avvertito il manifestarsi della malattia prima come dolore fisico e poi come una serie di sintomi a livello psicologico; aveva smesso così di suonare per due anni, attraversando insieme alla moglie, prezioso supporto anche in questo frangente, un tunnel dal quale è uscito a fatica, grazie alla terapia, all’impegno e al graduale avvicinamento ad un progetto basato sul folk e la musica tradizionale lombarda, “Turututela”, con cui è riuscito a interrompere la stasi causata dalla propria drammatica condizione.
Questa vicenda ha fatto successivamente avvicinare l’artista alle frange più intimiste del blues ed è confluita nell’album “Mercy” del 2008, ma ha anche insegnato a Fabrizio che la vita va vissuta momento per momento, senza mai dare nulla per scontato.

L’interesse di Fabrizio per la musica popolare è coerente con quello per il blues: i canti di lavoro delle mondine e le canzoni degli emigranti rimandano infatti allo stesso spirito di dolore e di speranza delle worksongs americane. E il gusto per l’aneddoto e l’episodio tipico dei racconti dei cantastorie – nel libro viene citato il quartetto pavese dei Cavallini, artisti di strada attivi per molto tempo nel Milanese ed autori, tra le tante canzoni, di quella straordinaria Fontana del dolor dedicata alla strage di Piazza Fontana – è in linea con l’altra grande passione di Poggi, quella per la narrazione, che lo ha portato prima ad essere un accanito lettore e poi uno scrittore e uno storyteller. Nella biblioteca del Blues Hall of Fame Museum di Memphis c’è un solo libro in lingua italiana, ed è firmato proprio da lui: si tratta di “Angeli perduti del Mississippi – Storie e leggende del blues”, volume nato dopo trent’anni di frequentazione e di studio di questo genere musicale fin dalle sue più lontane origini. Altro progetto che testimonia la vocazione del musicista per lo storytelling è “Il soffio della libertà”, spettacolo teatrale da lui stesso scritto e interpretato, dedicato alla conquista dei diritti civili da parte degli afroamericani.

foto di Riccardo Piccirillo

Tornando al blues “suonato”, Fabrizio ha collaborato, oltre che con il già citato Guy Davis, con alcuni tra i più grandi musicisti della scena roots americana: Blind Boys of AlabamaCharlie MusselwhiteLittle FeatRonnie EarlMarcia BallJohn Hammond, Sonny Landreth, Garth Hudson (The Band, Bob Dylan),
Eric BibbRuthie FosterFlaco JiménezJerry Jeff Walker, Billy Joe Shaver, Sharon White (Eric Clapton)Richard Thompson, The Original Blues Brothers Band, Steve Cropper. Con questi personaggi ha condiviso ripetutamente il palco ed ha ospitato alcuni di loro nei propri album, dal già citato “Mercy”, eletto disco dell’anno dalla rivista Buscadero nel 2008, a “Spirit and Freedom” (2011) e “Live in Texas”, registrato dal vivo. Quest’ultimo full-length ha segnato la fine del percorso con i Chicken Mambo: era giunto il momento di mettere insieme una nuova band e, uno ad uno, sono arrivati il chitarrista Enrico Polverari, il bassista Tino Cappelletti, il batterista Gino Carravieri, con i quali ha inciso l’album “Spaghetti Juke Joint” del 2014. Queste ed altre collaborazioni, tra tournée, festival e concerti memorabili, vengono rievocate nel dialogo tra Serena e il bluesman tra digressioni e flash narrativi dal sapore quasi cinematografico, come quello dell’incontro con il mitico Ry Cooder.
Gli ultimi anni hanno visto Fabrizio collaborare sempre più strettamente con Guy Davis, affiancandolo in un never ending tour nel 2018 e ottenendo insieme a lui una grande soddisfazione: il loro album “Sonny & Brownie’s Last Train” è stato candidato ai Grammy Awards come “Best Traditional Blues Album” insieme a “Blue and Lonesome” dei Rolling Stones, che ha poi ottenuto il riconoscimento. Una battuta d’arresto è stata costituita da un’operazione alla spalla e dalla successiva pandemia; nell’ultimo anno, poi, l’attività del musicista è ripresa a pieno regime, mentre le conversazioni che hanno dato origine a “Believe” davano forma, gradualmente, alla biografia dialogata sapientemente delineata dalla penna e dall’empatia di Serena Simula.

Fabrizio Poggi e Serena Simula – foto di Francesca Pesci

Cosa ha da dire Fabrizio Poggi in conclusione del proprio racconto? Egli ricorre alla metafora del treno a simboleggiare il trascorrere dell’esistenza: concerto dopo concerto, da un album all’altro, la sua vita è trascorsa tra corse prese al volo, appuntamenti persi – come convogli che si allontanano rapidi davanti a passeggeri ritardatari -, incidenti di percorso e viaggi interminabili. E il suo pensiero, anche in questo caso, va ai grandi del blues suoi predecessori:

Molti dei miei eroi musicisti, gli “angeli perduti del Mississippi”, il treno della vita l’hanno perso e ripreso molte volte ed è un po’ quello che ho fatto io, senza rimorsi né rimpianti. Ho sempre pensato che la vita non abbia alcun senso se non serve ad aiutare gli altri. Io ho cercato di farlo con la musica. Ed è così ancora oggi.

Abbiamo avuto occasione di rivolgere alcune domande a Fabrizio, Serena ed Angelina, a voler completare, tramite le loro stesse parole, l’efficace ritratto a tutto tondo del bluesman che emerge dalla lettura di “Believe”.

foto di Francesca Pesci

Ciao Fabrizio! Di questo libro ho apprezzato soprattutto la tua capacità di metterti a nudo senza reticenze e di affidare i tuoi ricordi più intimi e a volte dolorosi, alla sensibilità di Serena, che ha saputo poi tradurli efficacemente in una forma che rende il lettore emozionato e partecipe. Credi che sia consueto per un musicista rivelarsi in maniera così autentica o si tratta di una tua specifica esigenza?

Dovrebbe essere consueto, o per lo meno io lo considero indispensabile. Ciò che c’è dentro di te, le tue esperienze, i tuoi incontri entrano necessariamente nella tua arte. Ed è giusto che sia così. L’onestà arriva sempre dritta al cuore. Sì, hai ragione, Serena è riuscita a cogliere dettagli importanti che forse non sarei mai riuscito a confessare nemmeno a me stesso. E’ stata molto brava a leggermi tra le righe…

Leggendo questo libro, ma anche navigando nel tuo sito ufficiale e leggendo altre tue interviste, si nota come tu abbia cercato, con la tua attività di musicista, di ricercatore e di scrittore, di definire a più riprese che cosa sia davvero il blues. Anche alla luce delle tue esperienze personali, potremmo dire che il blues ha la capacità di salvare la vita?

Non so se il blues possa davvero salvare la vita di tutti, ma sicuramente ha salvato la mia. Il blues è guarigione, ed è nato dalle lacrime che bagnavano le zolle dei campi di cotone del Mississippi proprio per questo, per guarire l’anima della gente. In tutto il mondo.
E non è un caso se il mio prossimo disco (il numero 26) si intitolerà “Healing Blues” ovvero “un blues che guarisce”.

Vorrei infine soffermarmi su un dettaglio del tuo racconto: nel 2001 hai avuto modo di avvicinare il quartetto di musicisti di strada Cavallini, che grazie al tuo interessamento hanno ottenuto dei meritati riconoscimenti, e di esibirti con loro. Io, personalmente, li ho conosciuti di recente grazie ad un loro brano dedicato alla strage di Piazza Fontana che lo scorso anno, in una nuova versione, è stato inserito nell’album collettivo “17 fili rossi + 1” dedicato al terribile evento del 12 dicembre 1969. In “Believe” si sottolinea come una delle abilità dei cantastorie fosse quella di mettere in musica i fatti di cronaca. Credi che questa modalità di “storytelling” sia oggi definitivamente scomparsa o è ancora possibile che la canzone possa efficacemente parlare, se non proprio di cronaca, almeno dell’attualità e dei problemi che affliggono il nostro pianeta?

Credo che tra i doveri di un musicista ci sia anche quello di fare cronaca, ognuno a proprio modo. Pur non essendo aggiornato su ciò che succede oggi nel mondo della canzone d’autore contemporanea, credo che artisti come De André o Guccini si possano davvero definire cantastorie moderni, e non solo loro. Certo, negli States la tradizione popolare dello storytelling è stata ampiamente praticata, a partire da Woody Guthrie passando per Bob Dylan e tantissimi altri. Quasi tutti i bluesmen sono cantautori con la C maiuscola. Qui da noi l’attenzione alle liriche del blues è sempre stata poco focalizzata, forse a causa della barriera linguistica che solo in anni recenti ci ha permesso di capire i testi della musica che ascoltavamo. Guy Davis, con cui ho lavorato per lungo tempo, si considera un cantautore o meglio uno storyteller a tutti gli effetti.

Una domanda per Serena: mi ha colpito molto il fatto che per la stesura del libro tu abbia scelto di non registrare le conversazioni tra te e Fabrizio, bensì di affidarti agli appunti, come si faceva una volta, e alle emozioni suscitate dai vostri incontri. Vorresti ribadire il significato di questa scelta?

Lavorando per un quotidiano non sono abituata a registrare, perché dovendo produrre gli articoli in giornata ho i tempi strettissimi e non ho materialmente la possibilità di riascoltare eventuali registrazioni. Dodici anni di questo mestiere, quindi, mi hanno insegnato a cogliere immediatamente, durante una conversazione, i passaggi fondamentali, le parole chiave, i nodi intorno a cui dovrò poi sviluppare il testo. Questo sistema ha due grandi pregi: da un lato risparmi molto tempo (soprattutto per un progetto come quello di “Believe”, basato su ore e ore di conversazione che avrei dovuto riascoltare) e dall’altro, se i punti chiave li individui subito e non a posteriori, puoi anche approfondirli sul momento, scavando a caldo nell’animo dell’intervistato e uscendo dalla sessione con del materiale già semi-lavorato. Sì, perchè avrai sul tuo taccuino dei contenuti già interessanti, e in testa le idee molto chiare riguardo a quello che scriverai. 

E, last but not least, è doveroso rivolgere un quesito anche ad Angelina. Nel libro la tua presenza si avverte in modo palpabile, non solo nel capitolo in cui si parla di te direttamente, ma anche in altri momenti, dato che sei l’infaticabile organizzatrice che si occupa di tutti gli aspetti pratici dell’attività artistica di tuo marito. L’attenzione del lettore è, quindi, inevitabilmente attirata dalla tua figura, sempre discreta eppure fondamentale. Che effetto ti fa l’idea di esserti ritagliata, sia pure “involontariamente”, uno spazio importante in questa biografia di Fabrizio?

Beh, che dire: l’effetto è bellissimo. Ne sono felice e orgogliosa. Mai avrei pensato nella vita di entrare a far parte della storia di una persona così importante. Ho una grandissima stima per Fabrizio e per gli artisti in generale e penso che la loro luce dovrebbe sempre brillare per illuminare il mondo. Cerco di non mettermi mai davanti a questa luce per non fare ombra. Poi a volte succede che quella luce si rifletta anche su di me e io non posso che esserne riconoscente e onorata. Ma il mio lavoro continua senza mai “montarmi la testa”. L’artista e la musica, vengono sempre prima di tutto.

foto di Riccardo Piccirillo

Ricordiamo che “Believe” verrà presentato nell’ambito della manifestazione “Bookcity Milano” il prossimo 15 novembre, alle 20, 30, presso “Mare Culturale Urbano” in via Gabetti 15 a Milano. Fabrizio Poggi e Serena Simula dialogheranno con Paolo Pasi, giornalista, scrittore e musicista. Sono poi previsti ulteriori eventi e concerti: per tutte le informazioni al riguardo, il sito ufficiale dell’artista è www.chickenmambo.com.