Emozioni e riflessioni dopo l’esibizione della cantante africana a Como
L’Africa è indubbiamente un continente magico, immenso e ricchissimo, verso il quale però non ho mai provato una particolare attrazione. Non si tratta di diffidenza, bensì di quel sentimento che, per evitare di disperderci nell’illimitato (come afferma la saggezza millenaria dell’I Ching) ci porta a scegliere i campi di azione e di interesse, o a limitare l’elenco mentale dei luoghi che vorremmo visitare, delle culture che desideriamo conoscere, dei sapori, delle musiche e delle persone a cui ci potremmo accostare.
Ma a volte, per una serie di circostanze, ci si imbatte in eventi inaspettati e in persone verso le quali si prova un’attrazione inconscia ed immediata, e sappiamo dentro di noi che questo incontro forse non ci cambierà la vita, ma certamente allargherà i nostri orizzonti personali, culturali, umani. Il concerto di Fatoumata Diawara, ieri sera alla Villa del Grumello a Como, è stato una di queste esperienze.
Non conoscevo la cantante africana, originaria del Mali, se non di nome, e la combinazione che il mio primo concerto post-lockdown sia stato il suo, anzichè quello della mia tribute band preferita, è quanto meno insolita. Eppure, quando un paio di settimane fa ho visto il programma del festival “Como città della musica”, che si sarebbe aperto con l’esibizione di questa artista, non ho esitato un solo istante. Ho prenotato il mio biglietto, sicura che una meravigliosa sorpresa era in serbo per me, e la mia attesa è stata ripagata.
Fatoumata è una donna straordinaria, di grande umanità, bellezza, talento, che trasmette con la sua musica e le sue semplici parole (rivolgendosi al pubblico in uno splendido pastiche di italiano, francese, inglese) tutto il calore e la ricchezza della sua terra e dei suoi abitanti. Perché, spiega la musicista, partire è la prima scuola di vita che Dio ci ha donato; tutti partono, tutti viaggiano, l’immigrazione non ha colore, sotto i diversi colori della nostra pelle abbiamo tutti lo stesso sangue, e i fratelli africani hanno la stessa dignità di chiunque, anche se, per costrizione o scelta, lasciano la loro terra e si spostano altrove, in luoghi dove vengono ritenuti diversi e stranieri. Parole semplici, ma toccanti, pronunciate con grande sentimento e fierezza. Canzoni in lingua africana, dedicate alla sua patria, ai migranti, a chi lascia il proprio amore ed è costretto a partire; a George Floyd, suo fratello americano, che vive ancora in mezzo a noi.
Ritmi irresistibili, come l’afrobeat, di cui la cantante spiega l’origine, e melodie accompagnate da una chitarra Gretsch, che mi rende Fatoumata ancora più simpatica perchè quella chitarra l’ho vista tante altre volte, in contesti a me più familiari. E Stand By Me, che diventa un inno all’amore e alla fratellanza universale.
Fatoumata si congeda dal suo pubblico invitandolo ad alzarsi, a ballare e a cantare con lei. Sembra un po’ strano, dopo quattro mesi, pensare di poter tornare a lasciarsi coinvolgere dalla musica in questo modo – certo, qualcosa di anomalo c’è: siamo a un concerto all’aperto, ma su sedie abbastanza distanziate e con le mascherine in mano. Tuttavia la bellezza e la grazia di questa donna e della sua musica, il suo grande amore per la sua terra, ma anche per l’Italia, sua patria d’adozione (l’artista abbraccia i suoceri seduti in prima fila) travolgono tutto ciò che è stato, e possiamo davvero dimenticare, almeno per questa stagione, l’angoscia della pandemia che fino a poco tempo fa ha attanagliato le nostre vite.
Grazie, Fatoumata, per le emozioni che mi hai regalato. Esco dal concerto con la consapevolezza che la nostra storia, il luogo da cui proveniamo, le nostre radici, fanno di noi ciò che siamo, ma al tempo stesso non sono che punti di partenza verso altri percorsi alla scoperta di un nuovo modo di essere e di nuove opportunità. Au revoir.