Una “foresta di simboli” in cui smarrirsi, un susseguirsi di sinestesie ed altre figure retoriche danzanti, di allusioni che non descrivono, bensì suggeriscono, un universo personale in cui affascinanti prodotti del subconscio vengono descritti come fossero reali: questo è il mondo immaginifico di Max Manfredi descritto nel suo ultimo album Il grido della fata, pubblicato di recente per l’etichetta Maremmano Records.

Come dichiarava S. T. Coleridge nella sua Biographia Literaria, compito del poeta è quello di descrivere creature generate dall’immaginazione in maniera realistica, credibile, in modo tale che il lettore possa applicare the willing suspension of disbelief, la volontaria sospensione dell’incredulità, e penetrare in questo luogo incantato, addentrandovisi in punta di piedi prima e a passi più distesi e sicuri poi. E Manfredi è poeta e musicista che ci lascia entrare nel suo spazio mentale, senza però indicarci una esatta direzione da seguire che non sia lo svolgersi della sequenza delle sue canzoni. Troveremo sovrapposizioni tra diversi piani sensoriali, personaggi archetipici ed altri dall’aspetto più familiare, paesaggi incantati e fiori profumati, donne enigmatiche, torbide, ambigue, animali fantastici.

La prima figura che incontriamo è una Scimmia grigia che indossa un completo gessato di buona fattura e che si arrampica sulla spalla del protagonista. Chi sarà mai questa accompagnatrice, che non esiste eppure fa sentire tangibilmente la propria presenza? E se ogni persona che viaggia a bordo di un treno sull’Appennino ne avesse una accanto a sé? Qui non mancano i riferimenti ad una realtà più facilmente riconoscibile, quella delle scolaresche che salgono sui vagoni con i loro telefonini in mano; pure gli anziani non sono da meno, ognuno perso in uno schermo e in un mondo altro, mentre “la magia trasforma il treno in una foresta incantata, come l’immagine bionda e calda di un uccello perso nella boscaglia”.
La Sala da concerto, la Polleria, la villa irreale di Canzone del finale, l’albergo ad ore di Apis sono altrettanti angoli di un mondo animato da correspondances baudelariane e popolato da personaggi misteriosi come Malvina, che suonando l’arpa fa innamorare di sé “ i ragazzi della terza età” o il Guastamori, che “negli hotel della riviera osserva le gambe delle tenniste”, mentre intorno a lui si gioca “il gioco degli amori che affascina i bambini e sfianca i genitori”. Un trionfo di suggestioni oniriche è poi Rosso Rubino, caratterizzata dall’incalzare degli archi. Il rosso è quello del vino, ma anche quello della tonaca degli alti prelati dediti a pratiche innominabili. Si susseguono allusioni oscure: “hanno appetito le bestie dei tappeti”, mentre un re “con la corona e con lo scettro ma senza regno, senza favorita e senza dignitari” è in attesa di abdicare. In un’atmosfera straniante, “la città è un cuscino che perde le sue piume” e l’io lirico prova “nostalgia d’ inferno”, un inferno confortevole “con appesi prosciutti”, mentre la femminilità evocata è ammaliatrice e sensuale e si perde in “un Braille di canali”. Alcuni brani hanno sapore di assenzio, come la title track Il grido della fata, titolo preso a prestito da un sonetto di Gérard De Nerval, o di Calvados, come la già citata Malvina.

photo by Mary Nowhere

La parola si fa musica e le sonorità alternano sapientemente l’uso di strumenti acustici e tradizionali, compresi quelli orientali di Nasi Goreng, a quello sperimentale dell’elettronica. E il registro linguistico è ricercato e aulico a tratti – nel giardino del cantautore genovese fioriscono l’elicriso e l’asfodelo – ma anche basso e grottesco quando nella sua stagione all’inferno “trincano tutti/ in una gara di rutti”. Pervasa da erotismo è poi anche Apis, in cui si rievocano ardori giovanili, cinema porno “che hanno i nomi e luci di pietre dure”, attese in un albergo diurno in un’Italia d’altri tempi, con il coprifuoco e “corpi in fuoco venduti per poco” che consentiranno di “scendere giù fino al miele”, mentre il protagonista consuma “amori in folle e folle in amore” (il chiasmo polisemico è uno tra i tanti esempi delle abilità retoriche dell’autore). Altre vicende sono più rassicuranti, come quella di Elicriso, in cui un fiore viene ritrovato nella tasca di una vecchia giacca e rievoca un’innamorata lontana, in un racconto che, come ha spiegato lo stesso Manfredi in una recente esibizione live all’ARCI Tambourine di Seregno, si lega all’immigrazione del primo Novecento, quando i” treni volavano nel mare”. Dal vivo, nella versione acustica con la chitarra e il violino di Alice Nappi, brani come Apis e Rosso Rubino si spogliano di sonorità complesse e si rivestono di fascino, mentre Scimmia grigia e la stessa Elicriso conquistano l’ascoltatore in modo diretto ed istantaneo.

photo by Mary Nowhere

Il grido della fata è una labirintica galleria di specchi in cui lascarsi guidare dalla voce del cantautore, che trasporta l’ascoltatore nei salti da accordi minori a maggiori, lungo scale melodiche dai percorsi avvincenti, tra gli arpeggi e i controcanti… Questo album è uno scrigno di gioielli da contemplare, da maneggiare con delicatezza, che rivestiranno del loro splendore le mattine in cui si apre “la finestra ed è l’inverno” e che, per citare ancora una volta le Corrispondenze di Baudelaire, “cantano dei sensi e dell’anima i lunghi rapimenti”.

Tracce:

01. Scimmia grigia 
02. Sala da concerto 
03. Nostra Signora della Neve 
04. Malvina 
05. Nasi Goreng 
06. Polleria 
07. Il Guastamori 
08. Rosso rubino 
09. Apis 
10. Elicriso 
11. Canzone del Finale 
12. Il grido della fata 

Musicisti:

Bob Callero: basso – Federico Bagnasco: basso elettrico – Ezio Zaccagnini: batteria – Gianluca Pitzalis: chitarre elettriche – Marcello Stefanelli: chitarre elettriche – Ricky Farinelli: chitarre elettriche – Elisa Montaldo: percussioni, flauto cinese e tastiere – Fabrizio Ugas: chitarre – Edmondo Romano: flauto dritto – Darka Noe: violoncello – Kaled Ismail: percussioni – Shlomo Wacowitz: batteria – Igor Faccioli: batteria elettronica – Jennifer Ibuki: cori – Alice Nappi: violino – Nicola Bruno: basso – Fabio Travaini: clarinetto – Luca Falomi: ukulele – Marvin Qerimaj: violino

photo by Mary Nowhere