Storia di un libretto a vent’anni dalla sua pubblicazione

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Tra qualche giorno ricorre il ventennale della pubblicazione di Blue in the Face, una plaquette contenente una mia poesia, pubblicata da Edizioni Pulcinoelefante, casa editrice diretta da Alberto Casiraghi. L’editore è noto per i suoi i libri realizzati a mano, in tirature di soli trenta esemplari; tra gli autori, celebrità come Alda Merini ma anche esordienti come la sottoscritta.

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Il volumetto ha una storia legata alle mie vicende personali ed è nato quasi per gioco o per caso. All’epoca frequentavo due sorelle diplomate a Brera. La maggiore, A., era una talentuosa pittrice emergente, la più giovane, B., era più legata al disegno e all’illustrazione. A. era in contatto con l’editore Casiraghi ed aveva già pubblicato un’opera presso di lui. Un giorno B. mi mostrò dei ritratti di bambini africani che avevano delle particolari sfumature blu. Da qui ebbi l’idea di scrivere qualche verso, ispirato alla tematica dell’infanzia negata, per poi dare vita ad un libretto con la firma di entrambe. Fu la stessa A., poi, a curarne la pubblicazione, provvedendo personalmente alla stampa manuale con caratteri mobili e all’inserimento delle illustrazioni realizzate da B., una diversa per ciascuna copia.

Ma perché blue in the face? Troppo semplice spiegare la scelta di questo ambiguo titolo con le insolite tonalità dei disegni. Credo che l’idea mi sia giunta principalmente dal titolo di un film di Paul Auster e Wayne Wang in voga in quegli anni, nato come seguito del più popolare Smoke e composto da una serie di scene improvvisate durante la realizzazione di quest’ultimo. In realtà all’epoca in cui uscì non avevo capito esattamente quale fosse la motivazione del titolo di quella pellicola. Si trattò più che altro di una associazione di idee, quasi inconsapevole ed automatica.

Avevo anche pensato al significato dell’espressione inglese stessa: “blue in the face” means extremely angry, frustrated, annoyed, embarrassed or upset. Di certo, però, i bimbi sofferenti delle illustrazioni, ispirati a ritratti fotografici di giovani africani, non manifestavano frustrazione o rabbia., bensì smarrimento. Forse fu una parte di me, quella eternamente insoddisfatta, alla ricerca di una realtà altra, a voler esprimere un essere ancora irrealizzato, incompiuto, un sentire esasperato in immagini un po’ crude (albe di paura, lacrime mai asciugate,, parole mai udite, ferite mai guarite).

blue in the face

E il colore blu, che nell’inglese americano è associato a modi di dire come to be blue, to have the blues per esprimere la tristezza e l’inquietudine presenti nello stesso genere musicale, si mescolava nella mia mente ad immagini indistinte di infelicità: personale, universale, infantile, adulta. L’ispirazione fornita dagli sguardi dei bambini mi portò ad addentrarmi in territori oscuri e apparentemente privi di speranza. Tutto ciò, in modo immediato, non ponderato, mi condusse a scrivere quei versi. Versi che oggi, forse, non scriverei. Se dovessi concepire un’opera d’arte vorrei celebrare la vita, anche ciò che di essa non ho ancora compreso, e i doni che ho ricevuto, pur nel doveroso rispetto per ogni forma di sofferenza.

E cosa ne è stato di noi tre, giovani di belle speranze? Il mondo immaginato a vent’anni si rivela talvolta, ad un certo punto, spietato ed inaspettato e la vita sottopone gli individui a prove inspiegabili sulle quali è inutile chiedersi perché, ma piuttosto come. B. ed io, autentiche riders on the storm, abbiamo attraversato tempeste ricercando un piccolo porto di quiete. A. se ne è andata per un cancro a soli 33anni e a distanza di tanto tempo non ho parole abbastanza significative per commentare la sua scomparsa.

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Di quella stagione mi resta qualche copia di un libricino tra le mani. Oggi, a volte, mi vedrete blue in the face, ma sempre consapevole dell’unicità del dono più prezioso che abbiamo: essere noi stessi, ed essere qui, nonostante tutto.