Riconciliarsi con l’esistenza, giorno dopo giorno

Stamattina, scrivendo una mail “di lavoro”, mi sono quasi inavvertitamente lasciata andare a delle considerazioni esistenziali, in verità non dissimili da altre che ho condiviso, in quest’ultimo anno, con i miei “venticinque lettori”. Rileggendole, ho pensato che, forse, valesse la pena pubblicarle anche qui. Copio e incollo:

“Perdonare se stessi? Credo che gli ultimi vent’anni  della mia vita siano stati dedicati proprio a questo. Se penso a questi 20 anni mi rendo conto che proprio in essi la mia vita ha intrapreso la direzione che mi ha condotto dove sono ora. Avrei potuto, semplicemente, non recarmi nel tal luogo alla tal ora, un po’ come succede in certi film in cui il protagonista è a un “bivio” (negli anni ’90 divenne famosa, su questa tematica, la pellicola “Sliding Doors”) e ora non sarei qui a scrivere. Magari sarei a Londra, o a New York, o chissà dove…

Una volta che la nostra vita ha preso una data direzione e che abbiamo compiuto una serie di scelte coerenti con essa, diventiamo protagonisti di eventi anche non scelti da noi e affrontiamo una serie di situazioni, gioie inaspettate e dolori che ci sembrano immotivati e immeritati. A questo punto non si può far altro che perdonare se stessi (e gli altri, e la vita stessa) tutti i giorni. Quello che infatti poteva apparire intollerabile a 20 anni (un voto basso in un esame universitario, ad esempio) è un’inezia rispetto alle delusioni che la vita può riservarci, eppure quando lo si prova è bruciante e autentico. Proprio perché in quel momento non si conosce altro. Un po’, alla rovescia, come i gradi di felicità nel paradiso dantesco: i beati sono felici dove sono, perché non conoscono la beatitudine dei livelli superiori.

E al tempo stesso, non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, per citare ancora Dante, e quest’ultimo anno è stato emblematico in questo senso. A volte la vita, spietatamente, bruscamente, toglie; a volte, invece, ciò che abbiamo ci viene sottratto lentamente, progressivamente, con un processo inesorabile, e a distanza di mesi ci rendiamo conto che, non per volontà nostra, non abbiamo davvero “vissuto” e che molte certezze che avevamo sono state spazzate via da una catastrofe di portata mondiale, ma in modo graduale, quotidiano, con una lenta sistematicità alla quale ci siamo inconsapevolmente abituati. Ma, non per questo, guardarsi indietro fa meno male.

Che fare, dunque? Perdonare, perdonarsi; accettare; ricostruire; ridare il senso a ogni evento; e in questo modo addormentarsi ogni sera sapendo che, ancora una volta, abbiamo fatto del nostro meglio, e che non si sarebbe potuto fare una virgola di più, in ogni istante. Tutto questo sarà sufficiente a essere felici, ad assaporare la beatitudine? Probabilmente no. C’è sempre qualcosa che manca. La saggezza, l’accettazione, il perdono, non sono sufficienti a pensare che la nostra vita sia perfetta così com’è. Ci sarà sempre un anelito verso altro. Ma forse è giusto che sia così? Non è necessario rispondere. O meglio, la risposta la darà il tempo che ci resta da vivere. Mi fermo… “

Queste le riflessioni scaturite questa mattina da una situazione non dissimile da quelle che devo affrontare ogni giorno. Ho pensato che valesse la pena “fermarle” qui, anziché lasciare che fossero semplicemente parte di uno scambio comunicativo tutto sommato effimero. Ogni tanto, infatti, rileggo le mail e poi le cestino definitivamente, per fare spazio ed ordine. Magari qualche considerazione, meno effimera delle altre, merita di essere salvata, custodita rispetto alle migliaia di altre conversazioni che effettuiamo ogni giorno, time after time.

If you’re lost you can look and you will find me
Time after time
If you fall, I will catch you, I’ll be waiting
Time after time
If you’re lost, you can look and you will find me
Time after time
If you fall, I will catch you, I will be waiting
Time after time