Solidarietà ed impegno sociale nelle parole dell’artista a Como e a Seregno

Moni Ovadia è un personaggio che conosco da trent’anni, fin da quando, nei primi anni Novanta, ero una giovane studentessa universitaria ed ero capitata, in modo del tutto casuale, ad una sua conferenza alla Statale di Milano in cui lui aveva presentato il suo spettacolo “Oylem Goylem”.

Rimasi subito affascinata dalla capacità affabulatoria di questo personaggio, dalla sua ironia, dalla sua abilità nel divulgare la cultura delle sue origini, quella degli Ebrei dell’Est, mescolando aspetti comici e tragici nelle sue narrazioni. E fui letteralmente conquistata dalla bellezza e dall’energia della musica klezmer, che esprime contemporaneamente felicità e gioia, tristezza e malinconia, con strumenti di grandissima espressività quali il clarinetto, il violino, la fisarmonica e liriche in lingua yiddish.

In quel decennio ho seguito la sua carriera teatrale spettacolo dopo spettacolo (Dybbuk, Taibele e il suo demone, Cabaret yiddish, Ballata di fine millennio), ho visto i numerosi film a cui prese parte come attore – tra cui Facciamo paradiso di Mario Monicelli – e ho avuto occasione di assistere ad un suo recital persino a Cantù.

Last but not least, ho anche avuto la fortuna di intervistarlo per conto di una rivista universitaria, proprio in occasione dello spettacolo “Ballata” nel 1996, per poi – per vari motivi – perderne momentaneamente le tracce per qualche tempo.

In anni più recenti, ricordo soltanto una sua “discesa in campo” politico nel 2014, con una lista che faceva capo al greco Tsipras, per le elezioni europee, e  in quell’occasione, che coincideva con un momento di profonda sfiducia – che per quanto mi riguarda dura tuttora – nella classe dirigente e nei vari schieramenti, l’ho anche votato.

Quest’anno, finalmente, dopo parecchio tempo, ho avuto modo di rivederlo per ben due volte, in diversi contesti. Il 26 giugno scorso Ovadia era in una piazza di Seregno, invitato a presentare il suo nuovo libro-intervista “Un ebreo contro”,  e qui ha rivolto un accorato appello contro le ingiustizie sociali e le nuove forme di schiavismo che affliggono il mondo del lavoro, oggi, soprattutto nei settori dell’agricoltura e della logistica. Ovadia è molto legato alla città di Seregno, che nel 2008 gli ha conferito il premio “25 Aprile” per il suo impegno culturale, sociale e civile.

Lunedì sera, poi, l’artista era a Villa Olmo per il suo spettacolo Laudato si’, basato sull’omonima enciclica di Papa Francesco, pubblicata nel 2015.Tematica dell’opera papale, e del reading da essa tratto, è il rapporto tra uomo e natura e la necessità di ristabilire un equilibrio tra loro, abbandonando le logiche dello sfruttamento e del profitto ed abbracciando stili di vita più rispettosi dell’ambiente e di tutte le forme di vita. La terra, secondo Papa Bergoglio che riprende le parole di San Francesco d’Assisi fin dal titolo dell’enciclica, è nostra “sorella”, ma essa protesta per i maltrattamenti subiti, avverte sintomi di “malattia” e, poiché il nostro corpo è fatto dagli stessi elementi naturali che la compongono, “avvelenandola” è come se facessimo danno a noi stessi. L’argomento trattato dal Pontefice, di estrema attualità, è stato puntualmente commentato dall’artista con riferimenti a situazioni passate e presenti, senza prescindere dall’emergenza in corso, quella della pandemia, che non è stata la prima catastrofe planetaria e, a detta di Ovadia, potrebbe non essere l’ultima, né la peggiore.

Lo sviluppo e il progresso, secondo l’attuale Pontefice e i suoi predecessori, che a loro volta avevano preso posizioni decise sulle tematiche ecologiche, non possono e non devono essere troppo rapidi e irrispettosi del bene comune e della sostenibilità. I modelli di consumo non dovrebbero basarsi su quella che il Papa ha definito “la cultura dello scarto” ma piuttosto ispirarsi ad un’economia circolare, più simile a quella degli ecosistemi naturali, in cui non esistono sprechi. Parole semplici, ma efficaci, quelle di Bergoglio, che già nel 2015 evidenziavano problematiche universali, non legate alla cattolicità ma a tutta l’umanità, perché la terra è la “casa comune” di tutti gli esseri viventi. Le riflessioni di Francesco hanno permesso a Ovadia di addentrarsi in un’analisi di numerosi mali della società contemporanea, molti dei quali già esposti durante il suo intervento a Seregno e trattati anche nel suo libro-intervista uscito di recente per le Edizioni Gruppo Abele.

L’amore per il prossimo – inteso come apertura verso la diversità e l’alterità – è la più grande sfida che l’essere umano si trova a dover affrontare, secondo l’artista, ed è nel contempo la soluzione a tutto. Insieme, probabilmente, all’ironia, quell’ironia che non lo abbandona mai e che il suo pubblico si aspetta da lui, tanto che, prima di congedarsi dagli spettatori comaschi, ha elargito tre esilaranti storielle ebraiche, quelle che lo hanno reso famoso e amato. Al suo fianco, sul palcoscenico, uno storico musicista che lo accompagna da sempre, il violinista Maurizio Dehò, e il fisarmonicista Nadio Marenco.

I brani eseguiti hanno attinto alla tradizione argentina, in omaggio a Bergoglio, e alla musica popolare italiana. Un unico appunto: il talento degli strumentisti avrebbe meritato maggiore spazio ed è risultato un po’ in secondo piano rispetto all’eloquenza dell’attore. Appare evidente, tuttavia, che il ruolo preponderante della parola nasce da parte di un’urgenza morale molto sentita dall’artista: quella di appellarsi al pubblico e a tutto il genere umano per preservare la bellezza del creato e consegnare un mondo vivibile alle generazioni future.

La figura di Ovadia è sicuramente quella di un artista di grande spessore ed integrità morale, che non nasconde la propria formazione marxista intesa come ideale di pari opportunità per tutti gli individui, con particolare attenzione ai bisogni degli ultimi. “La sinistra è morta politicamente, la solidarietà no”, ha affermato l’artista a Seregno, e l’utopia è – forse – ancora possibile: un futuro migliore, legato ai corretti comportamenti dei singoli, deve essere un obiettivo al quale tendere, per noi stessi, ma anche per coloro che vivranno dopo di noi.

L’utopia è possibile è la frase che Moni Ovadia ha scritto come dedica sulla mia copia del libro “Un ebreo contro” a Seregno… οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”)… nowhere… now, here… dovremmo cercare realizzare qui ed ora ciò che a prima vista sembra impossibile.