Stefano Ravaglia racconta la sua passione per il Liverpool FC nel libro “Lettere da Liverpool”

Liverpool: nell’immaginario della maggior parte delle persone, il nome di questa città evoca due universi ben distinti, ricchi di storia e di fascino, vale a dire quello musicale e quello calcistico.

Il primo è tutt’uno con la band più famosa di tutti i tempi, i Beatles, i cui componenti erano nativi della città in riva al fiume Mersey e che qui conquistarono la notorietà per poi esplodere come fenomeno planetario. Il secondo è legato alle due squadre di calcio, quella omonima dalla maglia rossa e l’Everton dalla divisa blu, e allo stadio di Anfield.

In realtà questi due mondi, apparentemente diversi, sono strettamente legati e ciò che li unisce è una canzone: You’ll never walk alone, brano scritto dalla coppia statunitense Rodgers/Hammerstein per il musical del 1945 Carousel. Portato al successo proprio nell’era del Merseybeat, nel 1963, dai liverpudliani Gerry and the Pacemakers, il brano è infatti l’inno ufficiale della squadra del Liverpool. Il titolo della canzone fa ora bella mostra di sé sulla testata dello Shankly Gate, uno degli accessi allo stadio di Anfield, e sullo stemma ufficiale del club. L’inno viene cantato prima di ogni partita e in diverse occasioni speciali è stato lo stesso Gerry Marsden a intonarlo.


La squadra dei “Reds” ha molti seguaci anche al di fuori dell’Inghilterra ed esiste persino un club di simpatizzanti di casa nostra, il “Liverpool Italian Branch”. Così come ci sono molti italiani innamorati di questa città. Se io posso considerarmi una di essi, lo stesso vale per Stefano Ravaglia, scrittore e giornalista sportivo, che a questo luogo e alla sua squadra ha dedicato il suo libro Lettere da Liverpool, uscito lo scorso autunno per la casa editrice Battaglia Edizioni.

Per quanto mi riguarda, il mio legame con Liverpool è tutt’uno con la mia passione per i Beatles.  Per ben quattro volte, tra il 2012 e il 2017, l’ho visitata per partecipare alla International Beatleweek, la grande kermesse musicale che da trent’anni, a fine agosto, attira migliaia di appassionati dei Fab Four da tutto il modo. Ho assistito a innumerevoli concerti di tribute bands, ho visitato la casa di John Lennon in Menlove Avenue e quella di Paul McCartney in Forthlin Road, ho ammirato tutti i landmarks – come Penny Lane e Strawberry Fields – legati alla storia dei Quattro con il Magical Mystery Tour, sono stata al Casbah Club, il locale appartenente alla madre di Pete Best dove la band si esibì agli inizi della carriera, e potrei raccontare moltissimi aneddoti, ricordi, episodi vissuti con tanti amici. Non ho esperienze di tipo calcistico, non essendo una tifosa di questo sport, ma nonostante questo mi sono sentita istintivamente attratta dalla rossa copertina del volume di Stefano Ravaglia e ancor più dal suo emblematico titolo.

Ravaglia, classe 1985, originario di Ravenna, è un giornalista sportivo, scrittore (ha al suo attivo quattro libri) e conduttore televisivo. È di fede milanista, ma anche grande appassionato di calcio britannico. Il suo non è un romanzo epistolare, nonostante il titolo, bensì un appassionato omaggio alla città e alla squadra omonima che descrive i giocatori e gli episodi più significativi della storia del club, all’interno di un inquadramento storico-sociale impeccabile, “costato” all’autore due anni di lavoro e di ricerche.

Il fatto che al centro dell’indagine di Ravaglia ci fossero le vicende di questa squadra ha fatto sorgere in me il desiderio di ampliare, anche sotto il profilo sportivo, la mia conoscenza di una città che amo e in cui spero di tornare presto. Dopo aver letto il libro, mi sono così messa in contatto con l’autore, che si è mostrato estremamente disponibile ad una chiacchierata. Ecco cosa ci siamo detti:

Ciao Stefano, benvenuto nel mio blog! Ho apprezzato molto la parte introduttiva del tuo libro in cui hai descritto in modo particolareggiato la storia della città, i suoi luoghi più caratteristici, l’evolversi della scena musicale negli anni Sessanta. Mi ha emozionato la descrizione del Liver Building, con il riferimento alle due statue di uccelli che lo sormontano, e di molti altri angoli che chi ha visitato Liverpool ben conosce. Anche su di te questa città esercita un grande fascino, dunque?

Sì, certo. Mi piacciono le grandi città, ma anche e soprattutto quelle più di “nicchia”, meno frequentate dai grandi afflussi turistici. Liverpool è un po’ oltre la nicchia, poiché la sua musica e la squadra omonima l’hanno resa celebre in tutto il mondo. Ma non è – fortunatamente – una città necessariamente “turistica”, pur avendo una unicità tutta sua in quanto in essa convivono antiche tradizioni e aspetti della modernità. Soprattutto, la amo per la sua vivacità, percepibile nei suoi locali, nei suoi quartieri, nella sua gente.

L’indagine storica da te svolta relativamente alle origini di Liverpool è molto accurata. Un tempo la città basava la sua economia sulle attività portuali e dunque era crocevia di scambi culturali: qui, ad esempio, i marinai portavano i primi dischi di rock ‘n roll provenienti dagli Stati Uniti, contribuendo alla diffusione del nuovo genere e alla nascita di una fertile ed autonoma scena musicale, il Merseybeat.

Nei decenni successivi, la crisi economica comportata dal thatcherismo contribuì, come affermi nel libro, a dare una colorazione “rossa” non solo alle maglie dei calciatori, ma anche alla società e alla politica…

Ho avuto modo di indagare tutti questi aspetti e li ho sviluppati in stretta connessione con le vicende della squadra, dei calciatori, degli allenatori, delle partite più memorabili e di tutte gli aspetti in cui la storia calcistica si interseca con quella della città e, più in generale, con quella britannica.

Sei un tesserato del Liverpool Italian Branch e un grande esperto di calcio inglese. Da dove è nata questa tua passione per le squadre d’oltre Manica?

Beh, è stata sicuramente veicolata dalla mia passione per il calcio in generale. Il calcio non può prescindere dall’Inghilterra: là si sono giocati i primi incontri, là sono nate le prime regole, a Cambridge, e poi sono arrivate le “Sheffield Rules”. In terra d’Albione si disputa il trofeo più antico del mondo, la FA Cup. E non dimentichiamo la separazione tra il calcio e il rugby, perché l’università di Rugby non voleva il gioco con i piedi, ma solo con le mani. L’Inghilterra è pertanto la culla di tutto quello che, dal punto di vista calcistico, noi conosciamo e viviamo oggi.

In Italia il football britannico è noto anche ai non appassionati di questo sport, come la sottoscritta, per alcune “istituzioni”: lo stadio di Wembley, la Premier League, alcune celebri squadre (Arsenal, Chelsea, Manchester United), campioni come George Best, libri e film che hanno ritratto la passione calcistica come “Febbre a 90°. Secondo te come mai una realtà sportiva estera esercita interesse anche qui da noi?

Perché l’Inghilterra, a partire dagli anni Sessanta, ha influenzato le mode, il costume e la società al di fuori dei suoi confini. E per quanto riguarda il calcio, il modo di tifare, molto diverso dallo stile “latino”, l’ha resa subito meta di appassionati. Già negli anni Ottanta i tifosi del Verona andavano a vedere il tifo del Chelsea a Stamford Bridge. La curva della Lazio per anni ha adottato un tifo di stampo inglese, ossia senza bandieroni o coreografie, ma con una presenza massiccia di cori basati sulla voce e sulle mani. E purtroppo il “take the end”, ossia prendi la curva avversaria, è stato un altro elemento di influenza quando anche in Italia sono cominciati gli scontri tra opposte tifoserie. Oggi invece c’è una curiosità più dovuta al campo, alla Premier League che ha stadi magnifici e un’erba verdissima. E, al contempo, alla lenta decadenza del calcio italiano nei valori, nella qualità, nelle diatribe. Io stesso quando andavo lassù a vedere partite di serie inglesi, mi “disintossicavo”, senza dubbio…

Quali sono, a tuo avviso, le principali somiglianze e differenze nell’accezione di questo sport nel nostro Paese rispetto alla terra d’Albione? Intendo, sia dal punto di vista di chi gioca che da quello di chi assiste alle partite?

Per quanto riguarda il campo, in Inghilterra l’importante è fare un gol in più dell’avversario. Si bada meno alla tattica e più alla corsa. Anche se a volte un po’ di organizzazione salva certe squadre: ricordiamo che molti allenatori italiani hanno allenato lassù, come Ranieri, Ancelotti o Conte. Sugli spalti il discorso è molto cambiato rispetto a decenni fa: se guardiamo una partita di calcio inglese degli anni Settanta o Ottanta sentiamo il vociare del pubblico, quel “ruggito” tipico di quelle parti. Oggi si è tutto un po’ “imborghesito”: la Premier League è soprattutto un campionato dove si deve “fare mercato”, bisogna attrarre tifosi fuori dall’Inghilterra, e quello che noi chiamiamo “calcio moderno” loro lo chiamano “corporate football”. E così l’atmosfera è più “salottiera” quasi dovunque. Ma resta inimitabile la cornice e l’attaccamento che gli inglesi hanno per il club. Invito i lettori a informarsi sui casi di Wimbledon e Manchester United: i tifosi, in disaccordo con le proprietà, qualche anno fa hanno rifondato due club. Parliamo del Wimbledon AFC, che rappresenta la storica squadra prima del cambio di denominazione in Milton Keynes, e dello “United of Manchester”, ossia una società interamente gestita dai tifos,i che si sono distaccati dal grande United per contrasti con la proprietà. Cose pressoché inimmaginabili da noi. Da ultimo, una differenza importante: comprare i biglietti e accedere allo stadio in Inghilterra è molto molto più semplice che in Italia, dove burocrazia per l’acquisto dei tagliandi e la cattiva gestione dell’ordine pubblico te ne fanno spesso passare la voglia.

Per chi, come me, “c’era” negli anni Ottanta il nome di Liverpool rievoca, purtroppo, un triste ricordo, quello dello scontro tra i supporters della squadra omonima e i tifosi della Juventus, che portò alla tragedia nello stadio Heysel di Bruxelles, il 25 maggio 1985, in cui persero la vita 39 persone. Si tratta indubbiamente di una delle pagine più drammatiche nella storia del calcio europeo. A questa vicenda è dedicato un intero capitolo del tuo libro. Il fenomeno dell’hooliganism esiste ancora in Inghilterra?

No, non si può parlare di vero e proprio “hooliganismo” oggi, anche se i giornali e i media sfoderano spesso questa parola, ma solo per una pura questione di retaggio. Non dico che i tifosi di oggi siano tutti santi, ma i disordini che si verificano sono situazioni imparagonabili con quelle di 30 o 40 anni fa, quando non c’erano stadi con posti a sedere, quando le forze dell’ordine erano in esiguo numero, quando si poteva scorrazzare liberi alla ricerca degli avversari e di regole certe non ce n’erano.

Le due squadre si fronteggiarono poi ad Anfield a vent’anni di distanza, in Champions League, nella stagione 2004-2005… che cosa successe?

Ad Anfield la Kop, la curva dei tifosi più accesi, compose con dei cartellini bianchi e rossi una scritta: “Amicizia”. Ma dal settore ospiti della Juventus arrivò disapprovazione. È una ferita insanabile, ed è anche comprensibile. Ma bisogna anche capire una cosa: sono passati più di trent’anni, sono cambiate le generazioni e anche se la memoria va preservata, bisogna capire che chi segue il calcio oggi non era all’Heysel.

Quattro anni dopo, nel 1989 accadde a Hillsborough un’altra tragedia, prima del match Liverpool-Nottingham Forest, per motivi diversi, e a perire furono 96 tifosi dei Reds. A questa vicenda è dedicato un altro capitolo del mio libro. Credo che non ci siano vincitori e vinti in queste tragedie, ma perdono sempre tutti. Piuttosto, la Juventus ha sempre cercato inspiegabilmente di dimenticare l’accaduto, come ho raccontato nella mia indagine.. La solennità e la memoria storica in Inghilterra attecchiscono molto di più che in Italia.

Una domanda inevitabile: come hai vissuto la recente finale degli Europei tra Italia e Inghilterra? Senza entrare nel merito delle polemiche seguite alla vittoria della nostra squadra per il presunto atteggiamento “antisportivo” di tifosi e giocatori britannici, tu che percezione hai avuto di quei momenti?

Non ho tifato Inghilterra ma non ho tifato nemmeno Italia, infatti non seguo di solito la Nazionale perché personalmente non sono molto “patriottico”. Inoltre trovo che agli Europei e ai Mondiali ci siano molti appassionati dell’ultima ora che però negli altri undici mesi dell’anno etichettano il calcio come uno sport giocato da “miliardari viziati”. Su quanto successo nel contesto, ho avuto una percezione molto chiara: ho trovato tutto assolutamente ridicolo. Persone che hanno accusato gli inglesi di fischiare l’inno, quando nel 1990 prima di Germania-Argentina, finale del Mondiale, l’Olimpico ricoprì di fischi l’inno argentino. Oppure andate a vedere ciò che successe in Italia-Francia a San Siro l’8 settembre 2007. Fischiare l’inno non sarà bello, ma finché le intimidazioni sono dei normali fischi, non mi sembra la morte di nessuno, da una parte e dall’altra. Sulle medaglie tolte, non ne parliamo: è stato montato un caso di giorni e giorni su una cosa accaduta mille altre volte anche in competizioni italiane. Secondo me il pubblico italiano, che di solito non sa perdere (basti vedere le recriminazioni arbitrali continue ogni domenica in campionato da parte di qualsiasi allenatore, a turno, o le continue grida a qualsiasi complotto di vario tipo) questa volta, devo dire, non ha saputo nemmeno vincere.

Per concludere, due domande: hai intenzione di tornare a Liverpool, e se sì, quando? E quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Certamente sì, mi piacerebbe tornarci appena possibile. Anche se, sinceramente, non me la sento di pensare ora a un lungo viaggio all’estero. La situazione purtroppo è quella che è, ancora manca di chiarezza e di sicurezza. Sogniamo tutti di tornare a riempire i pub bevendo birra e andando poi verso Anfield a goderci la partita, ma al momento la vedo ancora come una possibilità molto lontana, purtroppo.

Per quanto riguarda i miei progetti futuri, devo dire che questo non è un periodo semplice per me. Mi piacerebbe trasformare la mia passione per lo sport e, in particolare, la mia attività giornalistica in un vero e proprio mestiere, ma purtroppo mi sono accorto tardi che questa avrebbe potuto essere la mia strada e, nonostante tanti traguardi raggiunti, non è ancora arrivata la “svolta”. Sono in una fase di importanti riflessioni. Spero di riprendermi e di pensare a nuovi obiettivi, ma purtroppo questo settore è davvero saturo ed è difficile “spiccare il volo”. Comunque, mi piacerebbe riprendere in mano un progetto che ho momentaneamente accantonato, vale a dire un libro su alcune donne che hanno segnato la storia d’Inghilterra, uscendo un po’ dall’argomento del calcio, al quale ho già dedicato tanti scritti.

Stefano, grazie mille per la chiacchierata, speriamo di rivedere presto questa città, e magari di scrivere altre “lettere da Liverpool”!