Una riflessione sul brano di “Faber” nell’anniversario della sua scomparsa
A ventitré anni, oggi, dalla scomparsa di Fabrizio De André, si moltiplicano le iniziative di tributo a lui dedicate, con spettacoli televisivi e teatrali, concerti dal vivo e in streaming. Sul cantautore genovese e sull’eredità da lui lasciata sono state scritte migliaia di pagine e innumerevoli sono gli artisti che gli hanno reso omaggio, reinterpretando le sue immortali canzoni. Difficile, dunque, realizzare qualcosa di nuovo sul suo conto. Troverò tuttavia il modo di dare anche io il mio contributo a questa ricorrenza, prendendo in esame un suo brano particolarmente rappresentativo: Il Suonatore Jones.

Come è noto, Non al denaro non all’amore né al cielo è un album del 1971, in cui De André rielaborò e musicò alcune poesie dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1915), che egli aveva letto nella pregevole traduzione di Fernanda Pivano, edita da Einaudi. Il primo brano del disco, La collina, funge da introduzione, presentando i personaggi che giacciono nel cimitero della cittadina in riva al fiume Spoon. I successivi brani sono ispirati ad altrettante liriche della raccolta: in essi otto personaggi maschili raccontano la propria storia, in un epitaffio sotto forma di autobiografia. Tra costoro Jones, il musicista, è l’unico ad essere identificato da un nome.

Ciò che lega tra loro le vicende delle diverse figure ritratte da Masters e riprese da De André è il complesso di contraddizioni, frustrazioni e debolezze che ha caratterizzato la loro esistenza e quella dei loro compaesani. Il Suonatore Jones, tuttavia (Fiddler Jones, cioè violinista, nell’originale, che nella trasposizione del cantautore diventa un flautista) è un individuo dalle connotazioni positive, che ha vissuto la sua vita dedicandosi alla propria arte e che, all’età di novant’anni, si ritrova a morire in povertà, con lo strumento spezzato, ma senza alcun rimpianto. Il ritratto di Jones è diviso a metà tra il primo e l’ultimo brano dell’album, in una sorta di cornice che racchiude tutte le altre vicende. Presumibilmente Fabrizio volle dedicare ampio spazio a questa figura perché si identificava con essa, sia per via del mestiere di musicista che per l’insopprimibile anelito di libertà che lo accomunava al personaggio creato dal poeta statunitense.

A Jones sono dedicate quattro strofe de La collina, il primo brano, e da uno dei versi di queste ultime è tratto il titolo dell’album. A differenza di altri protagonisti del disco, come Un malato di cuore o Un chimico, scomparsi prematuramente, Jones è morto in età avanzata:
Dov’è Jones il suonatore
che fu sorpreso dai suoi novant’anni
e con la vita avrebbe ancora giocato?
Egli ha condotto un’esistenza totalmente libera e spensierata:
Lui che offrì la faccia al vento
la gola al vino e mai un pensiero
non al denaro, non all’amore, né al cielo...
Come molti musicisti itineranti, non consumava pasti regolari:
Lui sì sembra di sentirlo
cianciare ancora delle porcate
mangiate in strada nelle ore sbagliate…
E non disdegnava delle buone bevute, visto che vini e liquori erano la sua passione:
Sembra di sentirlo ancora
dire al mercante di liquore
“Tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?”

Il ritratto di Jones viene poi ampiamente delineato nella canzone che porta il suo nome. De André esordisce affermando che l’artista è colui che riesce a vedere ciò che gli altri non vedono; la sua abilità visionaria gli consente di individuare la bellezza in ogni singolo episodio, in ogni minimo aspetto della realtà. Il sollevarsi della polvere in una giornata arida, ad esempio, suscita in lui piacevoli ricordi, come quello della visione di una fanciulla lanciata nei vortici delle danze:
In un vortice di polvere
Gli altri vedevan siccità
A me ricordava
La gonna di Jenny
In un ballo di tanti anni fa
Il musicista non comprende il senso del coltivare la terra, occupazione di molti dei suoi concittadini: per lui il suolo non è materia da cui trarre il pane quotidiano, ma una sorta di grancassa che risuona dei battiti del suo cuore. Così l’originale di Masters:
The earth keeps some vibration going
There in your heart, and that is you.
E questa la versione di Fabrizio:
Sentivo la mia terra
Vibrare di suoni, era il mio cuore,
E allora perché coltivarla ancora,
Come pensarla migliore?

Dedicarsi al lavoro nei campi, o ingrandire i propri possedimenti, era impensabile per Jones: i suoni della natura e della campagna (i versi dei corvi, il canto del pettirosso, il cigolare delle ruote del mulino) rievocavano nella sua mente un’orchestra di corni, fagotti ed ottavini, pensiero che lo distoglieva dalle occupazioni pratiche:
How could I till my forty acres
Not to speak of getting more,
With a medley of horns, bassoons and piccolos
Stirred in my brain by crows and robins
And the creak of a wind-mill-only these?
Qualsiasi occupazione, convenzione, legame è visto da Jones come una limitazione della propria libertà. Né la sete di guadagno, né l’attrattiva delle relazioni amorose, né il pensiero dell’aldilà sfiorano il suonatore, che vive al di fuori dei condizionamenti della società:
Libertà l’ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato…
Il mestiere del musicista è l’unico che garantisce l’indipendenza e che rende la vita degna di essere vissuta. La musica viene donata liberamente, ed elargirla mette le ali all’anima:
Libertà l’ho vista svegliarsi
Ogni volta che ho suonato
Per un fruscio di ragazze
A un ballo,
Per un compagno ubriaco…
Naturalmente essere un suonatore è un’attività che ha senso soltanto se c’è qualcuno che ascolta. Solo così suonare diventa una missione, una necessità e ciò che dà il senso alla propria esistenza:
E poi se la gente sa,
E la gente lo sa, che sai suonare,
Suonare ti tocca
Per tutta la vita
E ti piace lasciarti ascoltare…

Quando la sua parabola terrena volge al termine, Jones lascia i campi non coltivati, invasi dalle erbacce, ed il suo amato strumento, un flauto ormai rotto, ma se ne va da questo mondo ridendo, senza alcun rimpianto, perché ha vissuto fino in fondo come desiderava, seguendo la sua più intima vocazione:
Finii con i campi alle ortiche
Finii con un flauto spezzato
E un ridere rauco
E ricordi tanti
E nemmeno un rimpianto
Il tema ricorrente nella raccolta di Masters, così come in tutto l’album del cantautore, è quello delle scelte di vita compiute dall’individuo: esse possono portare alla felicità, ma anche alla malinconia, all’invidia, al rammarico per le occasioni perdute. Jones, tuttavia, è riuscito a vivere a contatto con la natura, di cui avverte la profonda musicalità, e con gli altri uomini, allietandoli con la propria abilità e restando fedele alla propria personale essenza. Certo, è morto in povertà, come se conciliare arte, senso del dovere e benessere economico non fosse possibile. Ma chi sceglie di essere musicista difficilmente insegue miraggi di ricchezza: ricerca, piuttosto, ciò che il suo cuore gli detta, il richiamo che la bellezza esercita sul suo animo e il desiderio di condividere questa passione con un pubblico più ampio possibile.
A più riprese Fabrizio De André dichiarò di essersi riconosciuto in questa figura e di aver scritto i versi della canzone di getto, illuminato da un’ispirazione immediata. Al tempo stesso non fu facile, per sua stessa ammissione, immedesimarsi in un personaggio che suonava per puro divertimento, mentre lui, in qualità di musicista professionista, percepiva un ritorno economico dalla propria attività.
Non c’è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per puro divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt’altro che facile.
Di certo, però, il brano è un inno alla libertà. Quella stessa libertà, che nella canzone giaceva addormentata nei campi coltivati e recintati, dorme ancor oggi nelle logiche del profitto, nei grandi meccanismi che a volte stritolano gli elementi più fragili della nostra società, nelle limitazioni delle scelte imposte agli individui dalle situazioni contingenti. Per risvegliarla, bisognerebbe guardare alla realtà con gli occhi di Jones e sostituire allo sguardo utilitaristico di chi vede in una nuvola di polvere soltanto l’incombere della siccità la visione poetica dell’artista, che coglie il fascino di ogni manifestazione naturale.

La figura del Suonatore Jones ha esercitato un’indubbia attrattiva su numerosi artisti: non soltanto molti hanno reinterpretato il brano di De André, ma c’è anche chi ha voluto intitolare il proprio ensemble musicale a questo personaggio – parliamo di Renato Franchi e della sua Orchestrina del Suonatore Jones, formazione che fin dagli anni’90 ha riproposto i brani di Fabrizio e di altri grandi nomi della canzone, per poi, dai primi anni Duemila ad oggi, realizzare svariati album di inediti e numerosi altri progetti.
Musica e libertà: un binomio indissolubile che trovano in Jones, e prima di lui in Faber, il proprio archetipo.