“Exit”, il nuovo album del cantautore, racconta le contraddizioni del mondo contemporaneo e le possibili “vie di fuga”
Trovare un’uscita di sicurezza, un “piano B” per sfuggire all’omologazione e all’incomunicabilità: “Exit”, il nuovo lavoro discografico del cantautore torinese Fabio Caucino, si pone questo ambizioso obiettivo. Testi densi e personali, in cui prevale il tono della denuncia e del disincanto nei confronti delle contraddizioni della società, si rivestono di sonorità eclettiche in un album (il sesto dell’artista) realizzato in totale autonomia. I nove brani descrivono, a volte in modo lucido e intransigente, altrove invece con toni più morbidi e fiduciosi, il senso di smarrimento che il vivere quotidiano suscita nell’animo di chi, dotato di attenzione e sensibilità, non intende lasciarsi inghiottire dalle logiche dominanti. Dal desiderio di cambiamento che prevale nell’opener La stessa storia al distacco dal reale come unica via possibile in Rimango solo, in cui un incalzante assolo di fiati ribadisce il dissenso del protagonista, e dal futuro distopico, orwelliano descritto in Verrà il giorno (“il percorso della storia sarà cancellato con il tasto della memoria”) in cui chitarre, percussioni e batteria sottolineano una minaccia che sembra non lasciare scampo, si giunge alla conclusiva Anima, le cui liriche sono un adattamento di un testo di Stefano Benni: qui il tappeto sonoro di archi e pianoforte evidenzia la solitudine ed il bisogno di autenticità dell’io lirico in contrasto con il degrado, l’”ingorgo cosmico” della società che ci circonda. L’anima, fortunatamente, si può anche rivestire di colori (Dipingi l’anima è il titolo del singolo estratto dell’album), per tinteggiare di tonalità più rassicuranti il mondo esterno, e restituire la speranza di un possibile cambiamento (Io cambio). Filo conduttore del disco è, dunque, una continua tensione tra la consapevolezza della tragicità dell’esigenza e una insopprimibile volontà di miglioramento.
Caucino, oltre che cantautore, è docente in una scuola superiore, graphic designer, scrittore e conduttore radiofonico e televisivo. Ha scritto più di cento canzoni e ha curato la colonna sonora di un fumetto animato. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti a livello nazionale e ha aperto i concerti di Samuele Bersani, Vinicio Capossela, Nicola Arigliano, Nada, Subsonica, Mau Mau e Bruno Lauzi. Conduce, inoltre, da dieci anni le trasmissioni radiofoniche sulla web radio RSP, di cui è direttore artistico. In questa intervista abbiamo approfondito alcune delle tematiche dell’album.
Ciao Fabio e benvenuto nel mio blog! Il tuo sesto album “Exit” è uscito ormai da un paio di mesi e sta ricevendo dei riscontri molto positivi. Una delle particolarità di questo disco rispetto ai precedenti è che lo hai realizzato in completa autonomia, suonando tutti gli strumenti nei vari brani. Quali sono le ragioni di questa scelta?
Buongiorno a te e grazie per quest’intervista. Le ragioni della mia ricerca musicale nascono dal titolo, dalla ricerca di un “piano B”, una via d’uscita dall’omologazione, cosa che per altro è sempre ben presente nella mia vita. Se nel disco precedente, “Morimmo tutti d’abbondanza”, ho cercato di “spolpare” la forma-canzone, riducendola all’osso della sua essenza attraverso due soli strumenti, in questo lavoro ho voluto riappropriarmi completamente del mio modo di vedere la musica, senza alcun filtro, senza compromessi e senza altre mani che portassero il loro valore aggiunto. Mi sono messo alla prova cercando sonorità e soluzioni che mi appartenessero fino in fondo. Ho voluto sottolineare una delle sfaccettature compositive che forse nei cinque dischi precedenti avevo tenuto più nascosta.
“Morimmo tutti d’abbondanza” era stato da te definito “un disco per far respirare l’anima”. Se dovessi descrivere “Exit” in una frase, quale potrebbe essere?
Sicuramente un disco “debordante”. Non solo non mi sono dato limiti, ma ho provato far emergere l’energia della musica: pur nella pregnanza di testi importanti, ho provato ad esaltare la fusione di strumenti, ritmi e visioni musicali apparentemente distanti. Quindi “Exit” è un disco prepotente.

Una delle peculiarità del disco è la presenza di due firme prestigiose: Erri De Luca ha fornito un contributo al testo di La stessa storia, il brano che apre l’album, mentre Anima è la rielaborazione di un testo di Stefano Benni. Da dove nasce l’idea di coinvolgere questi due autori nel tuo progetto?
Ho sempre amato definire le forme d’arte come “multifattoriali”. Definire per gioco i cantautori attraverso periodi differenti della storia dell’arte, unire ad esempio racconti, quadri e canzoni (come per altro feci con il disco-libro-fumetto “Passeggero dell’anima” ormai quindici anni fa), lavorare con la multimedialità nei concerti. Ho sempre considerato Erri De Luca e Stefano Benni come scrittori “liquidi”, musicali, poiché già nei loro libri si possono incrociare testi, più o meno consapevoli, di canzoni. Quando incontrai nelle mie letture questi due autori ho subito avuto la netta impressione che alcune “affinità elettive” esprimessero concetti comuni al mio modo di vedere la società. E mentre cercavo di codificare le loro espressioni, mi sono reso conto che erano scritte talmente bene, che sarebbe bastato inserirle in una forma d’arte differente, come la canzone, assecondandole e non deformandole. Quindi sono andato a cercare Erri De Luca, spiegando che avrei voluto inserire un paio di suoi versi nel brano La stessa storia, avendo in cambio una risposta tanto elegante quanto esaustiva: “una volta che le parole dette raggiungono qualcuno diventano sue”. Lo ringrazio per questo regalo. Con Stefano Benni invece abbiamo avuto una relazione epistolare attraverso molti scambi di email, dove alla mia richiesta di trasformare un suo testo del 1993, Anima, purtroppo attualissimo, in forma di canzone, il suo entusiasmo e la fiducia nei miei confronti sono stati ripagati da un brano che chiude l’album e di cui sono molto soddisfatto.
“Bisognerebbe rinascere clandestini/in mezzo a una strage di bambini” : questi due versi di De Luca veicolano un’aspra denuncia verso i tempi in cui viviamo, auspicando che tutti coloro che continuano (prendo in prestito le tue parole, dallo stesso brano) “a circondarsi di estetica/ mascherata da politica/ senza nessuna etica” dovrebbero sperimentare sulla propria pelle il drammatico vissuto di migliaia di individui alle cui problematiche non viene data alcuna risposta dai governi… cosa ne pensi?
La canzone-manifesto di cui citi i versi mi ha impegnato molto, anche se è uscita di getto, poiché ho voluto incidere sul concetto del pensiero critico. Per deformazione professionale, essendo docente di scuola superiore, l’attitudine a mettersi nei panni degli altri, a cercare di osservare il mondo da un altro punto di vista, a prendersi cura di ragazzi che dovrebbero vedere nella figura dell’insegnante, non tanto un divulgatore d’informazioni ma un magister, ha generato in me la necessità di esprimere il politicamente scorretto, il non allineamento, la non assuefazione ad uno stato di fatto immutabile. Come scrivo nel brano La stessa storia, con un piccolo gioco di parole:” perché non sia sempre …la stessa storia”.
Per quanto concerne il tema specifico della tua domanda, pur non essendo cattolico, prendo a prestito le parole di Papa Francesco che definisce, in una sua enciclica legata all’ambiente, i poveri del mondo come scarti sociali, ammonendo le generazioni che dovranno gestire tali problematiche a intendere non le categorie ma le persone in quanto tali. In una mia canzone provavo a definire questo concetto con la frase: “un atto d’amore non muore mai”. Fa male al cuore ascoltare interviste, dichiarazioni, comunicati che definiscono queste persone migranti o peggio clandestini. Rispetto a cosa? Basterebbe a volte mettersi nei panni dell’altro per scoprire l’alterità.


Quello che sottende il disco è una visione estremamente critica delle contraddizioni della realtà attuale, che però lascia comunque spazio alla speranza, alla possibilità di agire in modo propositivo per cambiare la situazione (come in Dipingi l’anima, in cui la fantasia e l’immaginazione possono aiutarci a realizzare le utopie): sei d’accordo?
Sono continuamente combattuto tra l’ottimismo cristiano e la tragicità razionale ellenica che contraddistinguono entrambe la mia natura, quindi anche quella artistica. Non riesco a scrivere in modo completamente cinico, completamente privo di speranza, poiché sono fatto dell’uno e dell’altra. Alla fine mi arrendo al pensiero che tra gli occhi dei giovani che incontro quotidianamente, ci sia quella fiamma che prima o poi farà compiere un altro passo in avanti culturale e generazionale. D’altra parte lo insegna la Storia. Devo però ammettere che nella contemporaneità dell’oggi non penso che una canzone possa modificare l’andamento di questo flusso, ma possa gettare un seme, che si spera possa essere coltivato da altri. L’unico mio rammarico è sempre quello che lo spazio offerto all’arte, in qualsiasi forma, oggi sia più legato alla forma che alla sostanza.
In L’amore addomestica affermi: “Voglio tornare a giocare puro dento la pancia di mia madre/Salire su un altro pianeta e guardare la Terra col giusto distacco/E sperare che tutto il petrolio finisca per rimanere finalmente al buio con le candele accese per sentire più calore”. Credi dunque che sia necessario per l’umanità toccare il fondo per riuscire a capire quali siano i valori più autentici a cui improntare l’esistenza?
In questo brano ho cercato di affrontare da una parte il tema dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo e dall’altra di rivedere la nostra idea di progresso. È ovvio che ognuno possa intendere come meglio crede una canzone, ma la mia intenzione è di scardinare un luogo comune già lungamente dibattuto e denunciato come quello della differenza tra sviluppo e progresso, che non si può più fermare ai concetti pasoliniani degli anni italiani del boom economico e neanche al concetto moderno di decrescita felice, ma ad una condizione contemporanea e futuribile di scelta individuale che porti ad una consapevolezza globale. Penso che nei prossimi anni, all’interno sia delle grandi questioni macroeconomiche, così come in quelle familiari, la necessità di eque scelte di approccio vadano bilanciate dalla razionalità, dall’efficienza così come dall’etica e dalla consapevolezza dell’alterità. Ecco perché estraniarsi dal mondo e guardarlo da lontano ci permette di rituffarci nel liquido amniotico della pancia di nostra madre per capire da dove arriviamo e dare una visione, seppur utopica, su dove vogliamo andare. Così come la pura efficienza non può bastare così il solo cuore non può vincere. Dovremmo abituare prima o poi le nostre culture alla convivenza, se non per empatia all’inizio, almeno per convenienza.
In Non una parola c’è la constatazione che i nuovi media rischiano di condurci all’incomunicabilità, di compromettere la libertà di pensiero… la letteratura può rappresentare un antidoto a tutto questo?
Una delle tante sfaccettature legate alla domanda precedente mi hanno portato a declinare il concetto dell’incomunicabilità. Proprio perché sono convinto che il pensiero contemporaneo sia polverizzato, destrutturato ed individualizzato, in cui ognuno può essere protagonista (che di per sé può non essere negativo), lo strumento del linguaggio tende al contrario ad una omologazione e ad una conformità che livella verso il basso l’autodeterminazione, le idee, il confronto. Ecco perché nel momento in cui confondiamo il fine con il mezzo non facciamo altro che farci trascinare a fondo da atteggiamenti, consuetudini, sistemi che da prassi si fanno regola. Lavorare su sé stessi attraverso lo studio continuo, senza sentirsi mai arrivati, la scoperta di buoni libri, l’appagamento visivo di un bel paesaggio, l’ascolto di una bella canzone, ci possono offrire spunti per iniziare un percorso più consapevole non solo sui temi universali ma anche sulle piccole questioni quotidiane. In realtà l’antidoto lo possediamo già e forse è il caso di dire: “ma in quale tasca l’ho messo?”

Dato che sei anche un docente, come si concilia la tua attività di cantautore con quella di educatore? Pensi che in questo momento storico sia più difficile dialogare con i giovani, trasmettere valori e bellezza? In Verrà il giorno si coglie un certo pessimismo a questo proposito: “Ma quale musica leggera da cantare/ quale canzone d’autore da consacrare /quando mi sento lento, fuori gioco, fuori tempo /fuori da ogni misero intervento”…
Sì, sono un docente di scuola superiore e orami sono più di vent’anni che convivo con questa duplice veste. Non nego la difficoltà “tecnica”, a volte, di conciliare concerti lontani dal Piemonte e da Torino, terra nella quale vivo, per farsi trovare pronto per la prima ora delle lezioni del mattino successivo, ma tanto basta per suscitare nelle generazioni che ho accolto la curiosità per questa attività così difficile da definire. Il rapporto con i ragazzi è sempre lo stesso, da sempre, e non è più facile o difficile dialogare con loro. Il problema è più complesso e riguarda l’approccio dell’adulto, non certo quello di adolescenti che continuano ad avere le stesse pulsioni, il medesimo slancio e tutte le fragilità di un’età indefinibile. Esattamente quello che noi abbiamo passato nella nostra adolescenza. Ecco perché ritengo che lo sforzo maggiore stia nel riconquistare il ruolo di docente che non è stato dato attraverso un “imprimatur”, ma che dobbiamo riconquistare ogni giorno, sapendo che bisogna dare tutto ogni volta, mettendosi in gioco continuamente, senza serrarsi dietro una cattedra-scudo. Ciò implica la necessità di instaurare una relazione, un vocabolario affettivo, un’educazione alla reciproca attenzione. Senza ciò un ragazzo (ma lo faremmo anche noi adulti), si sentirà indifferente, non legato, non stimolato ad un confronto: non avrà e darà fiducia. Solo a valle di questo si potranno pretendere lo studio, l’applicazione, la fatica e mai a monte.
Nello specifico della riflessione sul brano Verrà il giorno, in un incerto giorno di primavera del 2011 andai a casa scrivendo questo brano dopo una furiosa litigata con alcuni studenti dell’epoca sul pensiero critico e sulla necessità della ribellione per una giusta causa. La mia invettiva, durante l’elaborazione del testo, si scontrò con la mia visione adulta della vita, tanto che nei versi che hai citato in realtà sto rispondendo a due brani che ho amato molto: Musica ribelle di Eugenio Finardi e La mia generazione ha perso di Giorgio Gaber. Nell’una vedevo l’inutilità di essere cantautore impegnato e dall’altra sapevo che la mia generazione, figlia di quella gaberiana, era al collasso. Ma nonostante questo anche in Verrà il giorno trovo la speranza in un riscatto generazionale.


In ambito musicale e letterario quali sono i tuoi punti di riferimento?
Anche se sono molto curioso di tutto, restringendo il campo musicale non posso che citare i cantautori italiani che mi hanno tenuto compagnia da quando ero ragazzo, così come alcune band anglosassoni che dai dieci anni in avanti ho conosciuto grazie a mio fratello di cinque anni più grande e al continuo scambio di LP sul tavolo della sala di casa con i suoi amici. Dai Pink Floyd al blues il passo fu breve, fino alla lettura indefessa di una intera enciclopedia del jazz che mi diede altri spunti per iniziare a suonare la chitarra. Avevo quindici anni e dal quel momento ho masticato tanta musica. Peter Gabriel, Donald Fagen, Eric Clapton, Weather Report fino ai contemporanei Snarky Puppy. E poi l’etno world di tanti musicisti che ho conosciuto negli anni, dalla nyckelharpa degli scandinavi Vasen al direttore e violinista dell’Orchestra Arabo-Andalusa di Tangeri Jamal Ouassini. Per arrivare alle escursioni elettroniche dei Depeche Mode e il rock di Marylin Manson.
Per quanto riguarda i riferimenti letterari premetto che non sono appassionato di romanzi ma piuttosto di racconti, ma mi interessano molto i saggi e i libri che offrono punti di vista alternativi sulla storia, la società, il ragionamento. Ovviamente in questa sede urge il riferimento a Erri De Luca e a Stefano Benni, ma anche al filosofo Umberto Galimberti e al giornalista Corrado Augias. Insomma una difficile collocazione, una ricerca continua per poter rubare qua e là stimoli che mi permettano di continuare questa strada.
Ringrazio Fabio per la stimolante chiacchierata e gli auguro tutto il meglio per il suo nuovo progetto.
