Federico Sacchetti: una chiacchierata sulle sue esperienze e sul suo album “Diversi anni fuori tempo massimo”
A volte le strade che percorriamo sono lunghe e tortuose. Perseguiamo i nostri sogni e le nostre ambizioni con grinta e determinazione, raccogliamo soddisfazioni, ma anche qualche delusione. Le persone che incontriamo lungo il nostro cammino sono determinanti per favorire il nostro sviluppo personale, ma anche per farci comprendere “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E, per svariati motivi, molteplici come multiforme è la nostra stessa esistenza, talvolta raggiungiamo obiettivi perseguiti lungamente “diversi anni fuori tempo massimo”.
Ho conosciuto Federico Sacchetti, bresciano, nato nell’anno della pubblicazione di “Abbey Road”, come musicista beatlesiano, prima con i Back To The Cavern e poi con gli iPaul. Quest’ultima formazione è stata una di quelle che più avevo apprezzato nell’ultima edizione dei Beatles Day di Brescia nel 2019, l’ultima “in presenza”. Quando, qualche settimana fa, ho visto che era uscito l’album solista di Federico, con un titolo emblematico e una copertina così evocativa, l’ho contattato subito per fare due chiacchiere con lui. Ecco che cosa ci siamo detti.

Ciao Federico, benvenuto nel mio blog!
Il tuo album è uscito da qualche settimana. Di recente un giornalista musicale (Alessio Brunialti, n.d.r.) durante una presentazione a cui ho assistito, ha detto che ogni settimana in Italia escono 250 nuovi album su supporto fisico (CD, LP). Molti altri artisti, invece, pubblicano solo su piattaforme digitali… che ne pensi?
Sono nato all’epoca del vinile, ho vissuto l’era del mangianastri e dell’autoradio con le cassette su cui si registravano gli LP per non rovinarli con i troppi ascolti; poi è arrivato il CD ed a mio avviso (a parte disquisizioni di nicchia audiofila…) il salto è stato enorme. Esso è ancora il mezzo migliore, come qualità e come prezzo, per ascoltare la musica da un supporto fisico, e uno dei pochi modi per dare più contenuti al progetto, valorizzando comunque la parte musicale. Con lo sviluppo del formato Digipack e dei booklet interni si infatti può dare spessore anche al “contenitore”, non solo alla musica. Si possono inserire testi, foto, grafiche che completano la visione del progetto ed aiutano l’ascoltatore a entrare nel mondo dell’artista.
Dare alle stampe un album che abbia un packaging, un artwork, un booklet con foto e testi delle canzoni è dunque fondamentale … Ritieni che pubblicare un CD “vero” sia al giorno d’oggi un “atto di coraggio” o per te è l’unico modo possibile di intendere la realizzazione di un disco?
Il supporto fisico, il CD in questo caso, “costringe” ad un ascolto più meditato e consapevole: devi prenderti il tempo di aprire la custodia, accendere lo stereo, inserire il disco e guardare il libretto interno… tutto questo nella “musica liquida” scompare, a prescindere poi dal livello qualitativo a cui si vuole ascoltare la musica: dal pessimo mp3 sullo smartphone, ai formati meno compressi delle varie piattaforme di streaming, fino ai servizi con musica Hi-Res, di qualità superiore al CD. Per quanto riguarda il mio album appena uscito, sarebbe stato bello anche stampare qualche copia in vinile, visto il ritorno di interesse nei suoi confronti, ma erano ulteriori costi che non potevo affrontare.

Parliamo delle tue esperienze musicali. Hai iniziato a fare musica negli anni Ottanta e con la tua prima band ti cimentavi in cover di artisti new wave/dark, come Diaframma, Decibel, ma anche Cure e Siouxsie. Ascoltando il tuo disco si colgono gli echi del tuo “imprinting”, anche nella scelta di alcune tematiche (l’inverno, ad esempio…): sei d’accordo?
Sicuramente: l’esistenzialismo dietro al movimento dark, la letteratura del romanticismo inglese, il pessimismo come attitudine personale, la consapevolezza sin da giovane che il tempo non risparmia niente e nessuno, una certa mia intransigenza che a volte è stata scambiata per presunzione sono stati elementi formativi delle mie scelte stilistiche e di contenuto, oltre alla convinzione che una canzone “dovesse” raccontare una storia, denunciare una situazione, una ingiustizia, un disagio, e non essere solo uno svago o un ritornello estivo ed orecchiabile.

Gli anni Novanta sono stati per te un periodo molto formativo, ricco di esperienze significative e di riconoscimenti: qual è l’episodio al quale sei più legato, rispetto a questo decennio?
La finale di Sanremo Giovani del ‘91/92 a cui ho partecipato è stata una grande avventura, un turbinio di serate, di concorso in concorso, di città in città, da un paesino di provincia, passando per il teatro Goldoni a Venezia, alle serate suonando in “playback”, senza chiedere favori a nessuno, fino all’ultima selezione dove i giochi erano fatti e gli artisti scelti per il palco di Sanremo avevano già etichette e discografici che li rappresentavano. Ma eravamo giovani e abbiamo pensato “andrà meglio la prossima volta”; è stata una esperienza inebriante ma effimera.
Sono più legato al ricordo della scuola di Mogol, il CET, dove avevo vinto una borsa di studio (poche decine di posti per oltre diecimila domande), per un corso altrimenti al di là delle mie possibilità economiche: è stata una sorta di talent show, solo che non c’erano le telecamere!

E come è andata?
Sei settimane, spalmate in un arco di 6 mesi, di full-immersion presso la sede della scuola, in Umbria, a scrivere canzoni, imparare, confrontarsi e mettersi in mostra con altri ragazzi con lo stesso sogno: diventare musicisti professionisti. Ho conosciuto cantanti, compositori e autori di grande talento. C’era una atmosfera stupenda, di competizione ma anche di ammirazione e collaborazione reciproca, di rispetto, di stimolo. Grandi docenti (Cheope – Alfredo Rapetti, figlio di Mogol, Gatto Panceri, Giorgio Conte, Oscar Prudente, Ruggeri, Cocciante, Ornella Vanoni, a seconda dei corsi a cui eri stato ammesso), grande crescita umana e professionale. Unica delusione, dal mio punto di vista, è stato Mogol, che mi è sembrato più desideroso di ricevere consensi che realmente impegnato a promuovere il talento dei giovani che lo circondavano.
Tra i diversi generi con i quali ci sei cimentato, c’è anche il folk acustico di stile irlandese, che recupera anche le tradizioni medievali: vuoi parlarci di questo aspetto?
Di ritorno dall’Umbria, esperienza di cui non ero rimasto soddisfatto, ero stato contattato come bassista da una band con una lunga storia e tradizione di musica popolare alle spalle. “La Cantina di Ermete”, questo il nome del gruppo, proponeva un mix originale tra la Padania dei Modena City Ramblers e l’Irlanda dei Chieftains, il Mediterraneo, le ballate medioevali, il Sudamerica degli Inti-Illimani e la canzone d’autore italiana come Fossati. Tra cover e pezzi originali, rigorosamente in dialetto bresciano, era una proposta piena di sonorità diverse, con flauti, archi, mandolini e bouzouki, accostate alle tastiere e alla batteria, alle chitarre acustiche, classiche, alle percussioni come il bodhran; non ci siamo fatti mancare niente!

E veniamo ad un altro ambito nel quale hai avuto modo di distinguerti: hai fatto parte di diverse formazioni beatlesiane, l’ultima delle quali sono gli “iPaul”, che propongono il repertorio di Paul McCartney.
La passione beatlesiana nasce da ragazzino, quando per il mio 12° compleanno mia sorella mi regalò l’Album Rosso… decisi da subito, istintivamente, che Paul era il mio preferito, perché pezzi come “We Can Work It Out”, Paperback Writer e Eleanor Rigby” mi toccavano nel profondo. In quegli anni stavo studiando violino al Conservatorio e quando smisi passai alle 4 corde del “basso violino” Hofner. Avevo formato una band con i compagni di liceo e dovevamo partecipare ad uno dei primissimi Beatles Days bresciani organizzato da Rolando Giambelli, quando Luca, il batterista, ebbe un grave incidente. Fu uno shock, la band beatlesiana si sciolse ed io presi altre strade. Ritornai a Paul nei primi anni del 2000, quando, dopo aver fatto esperienza come bassista e corista, mi sentii pronto a passare al ruolo di cantante. La scelta fu di proporre solo pezzi di McCartney solista, con “quota beatlesiana” minoritaria, scelta, ancora una volta, poco commerciale e di nicchia.

Sempre parlando di McCartney, hai realizzato anche uno spettacolo teatrale a lui dedicato.
Dopo molti anni nel circuito beatlesiano mi sono reso conto di quanto poco sia conosciuto, qui da noi, il repertorio solista di “Macca” e di come sia percepita in modo a volte riduttivo la sua figura e la sua opera in confronto a quella di Lennon. Così il mio spettacolo (The Love In The End) puntava il riflettore sulla sua carriera solista post-Beatles, cercando di raccontare con aneddoti, brani musicali e dialoghi come Paul si fosse reinventato, liberato del passato e fosse sulla propria non più “winding road”. Lo show proposto dagli iPaul e dai due attori in scena alternava canzoni a parti recitate, momenti intensi ed emotivi a puro rock’n’roll; è stato davvero un peccato non essere riusciti a replicarlo, nonostante il successo ed il sold-out da 300 posti della prima ed unica rappresentazione.
E arriviamo, finalmente, al tuo disco. Per quanto riguarda il titolo, “Diversi anni fuori tempo massimo”, immagino tu ti riferisca al fatto che i brani dell’album sono rimasti nel cassetto per circa trent’anni…
Dietro il titolo ci sono almeno due significati: il primo riferimento è proprio quello relativo al tempo trascorso tra quando alcune canzoni sono state scritte e quando mi sono deciso a realizzarle. Alcuni brani appartengono all’epoca in cui io ero il bassista della band e l’autore dei brani, ma non il cantante; pezzi come “L’Inverno”, in una sua prima versione con testo in inglese, e “Wait” erano di Claudia e dei Mad’n’Crowd, mentre “Fine Secolo”, la canzone della “corsa” sanremese, era cantata da Monica dei Vertigo. Altri pezzi sono stati scritti dopo l’esperienza al CET di Mogol, ma a fine anni ’90 non avevo una band con cui proporli e sono rimasti nella mia testa o a prendere polvere come spartiti sul pianoforte.

E l’altro significato?
Chi segue come me il ciclismo lo conoscerà di sicuro: esso è legato al concetto di “tempo massimo”, cioè una quota calcolata in percentuale sul tempo del vincitore, per poter arrivare al traguardo in ritardo senza essere squalificato e potersi presentare alla partenza anche il giorno successivo. Questo accade spesso nelle tappe di montagna dei grandi giri come il Tour de France, quando gli scalatori staccano la stragrande maggioranza del gruppo. Chi arriva ultimo non ha fatto meno fatica del vincitore e, soprattutto, non è meno determinato nell’arrivare al traguardo.
Come è nata l’esigenza di pubblicarli proprio ora?
Il lavoro è partito una sera di fine estate del 2017; ero in pausa dagli iPaul con i quali non riuscivo a trovare repliche per lo spettacolo teatrale e per combinazione Carlo Maria Toller, giovane talento bresciano, già al mio fianco in diverse formazioni delle mie “MaccaBand”, mi chiamò per sapere se avevo voglia di registrare qualche canzone. Sapeva che ne avevo qualcuna nel cassetto, aveva voglia di fare esperienza come produttore e fonico, ed io ho raccolto l’invito, un po’ titubante ma incuriosito, senza rendermi conto che era la “spinta” che aspettavo da tempo. Siamo partiti un po’ alla cieca, io ripescando qualche vecchio pezzo registrando piano e voce al cellulare, Carlo provando a proporre arrangiamenti. A dicembre 2020 ho provato a partire con la pubblicazione dei primi singoli on-line, ma poi è risultato chiaro che non ci sarebbe stata alcuna ripartenza e il lavoro si è bloccato. Nel 2021, infine, anche se le condizioni non erano migliorate, mi sono deciso per la pubblicazione.

Ho la sensazione che la scena musicale bresciana, sia pure in misura inferiore a quella di altre città, sia piuttosto vivace. A parte l’attività di divulgazione beatlesiana compiuta da Rolando Giambelli, ci sono diverse realtà emergenti ed anche artisti affermati, sia pure in un ambito di nicchia, come Charlie Cinelli. Ti trovi a tuo agio in questo ambiente? Ci sono dei musicisti locali con i quali hai instaurato collaborazioni?
Sinceramente non mi sono mai sentito parte della scena, sicuramente per un limite mio nel sapermi proporre e presentare nei vari ambienti musicali, per gli impegni prima universitari e poi lavorativi che hanno tolto tanto tempo ed energie alla musica, unito ad un senso di non “esser abbastanza”… Ho sempre provato un po’ di soggezione verso tanti musicisti più bravi, ed allo stesso tempo, per quella assoluta intransigenza e coerenza che ho cercato di mantenere, ho a volte rifiutato proposte che al tempo non mi sembravano “adatte” ma che probabilmente sarebbero state comunque esperienze di crescita. Mi ha fatto molto piacere collaborare con Carlo Maria Toller, uno dei musicisti più dotati della sua generazione, e senza di lui il mio disco non ci sarebbe! Ho conosciuto altri musicisti e spero in futuro si possano consolidare nuovi legami. Recentemente ho partecipato al nuovo progetto di Aua, bravissima cantante già con i Pinca Pallina a Sanremo 2001, al lavoro col il marito chitarrista Federico Donati (già nei miei iPaul), su un EP di prossima uscita.

Domanda immancabile: quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il mio desiderio ora è poter proporre il lavoro dal vivo, anche per poter vendere il disco, non avendo alle spalle una distribuzione ed una etichetta. Abbiamo preparato una versione acustica minimal in trio, per i piccoli locali. Stiamo anche lavorando agli arrangiamenti con una band al completo, per poter proporre i brani in versione più simile a quanto registrato per la primavera-estate, se si apriranno prospettive nuove. Poi non nego che la consapevolezza di aver realizzato un buon lavoro, che mi rappresenta in pieno, mi dà la voglia e la tranquillità di scrivere altri pezzi e magari realizzare un nuovo capitolo della mia storia musicale.
Auguro il meglio a Federico Sacchetti… e a breve avrò occasione di riparlare di lui con la recensione del suo album!