Nel 1840 l’autrice di “Frankestein” trascorse due mesi sulle sponde del Lago di Como

Nell’Ottocento l’Italia fu, per i poeti romantici inglesi della seconda generazione, una meta prediletta. George Gordon Byron visse a Firenze, Venezia e Ravenna; John Keats visitò Roma, alloggiò in Piazza di Spagna e fu sepolto nel cimitero protestante della capitale; Percy Bysshe Shelley, che definì la nostra penisola “paradiso degli esuli” nella sua opera Julian and Maddalo, soggiornò con la moglie Mary a Napoli, sui Colli Euganei e si fermò a lungo in Liguria, presso Lerici, in quello che attualmente è chiamato “Golfo dei Poeti”, per poi morire nel 1822, a soli 30 anni, durante una traversata da Livorno a La Spezia. Ma i coniugi Shelley, nel corso della loro permanenza in Italia, ebbero modo di apprezzare anche le bellezze del Lago di Como. E Mary, diciotto anni dopo la scomparsa del marito, trascorse otto settimane in territorio lariano e successivamente raccontò la sua esperienza in Rambles in Germany and Italy in 1840, 1842 and 1843.

Mary Shelley, nata Mary Wollstonecraft Godwin nel 1797, è una figura emblematica nel panorama letterario britannico. Figlia di una protofemminista, Mary Wollstonecraft, e di un filosofo anarchico, William Godwin, visse – dopo aver sofferto la prematura dipartita della madre, che morì dieci giorni dopo la sua nascita – fin da bambina in un ambiente intellettualmente stimolante. La casa paterna, infatti, era frequentata da intellettuali e letterati come S.T. Coleridge e lo stesso Byron. A 16 anni si innamorò di Shelley, un altro degli abituali ospiti del salotto di Godwin, e i due fuggirono insieme, nonostante lui fosse già sposato. Si recarono in Francia e in seguito in Svizzera, dove si stabilirono sul lago di Ginevra, nelle vicinanze di Villa Diodati, dimora di Byron. Qui Mary, nel 1816, iniziò a concepire il romanzo che le diede la notorietà, Frankenstein or the Modern Prometheus. Il sottotitolo dell’opera è significativo, poiché racchiude la sua tematica fondamentale, la volontà di trascendere i limiti imposti dall’ordine costituito. Come l’eroe mitologico si ribellò agli dei per donare il fuoco agli uomini, il protagonista del romanzo sfida infatti Dio e la natura, cercando di ricreare la vita in un laboratorio. Elementi “gotici”, la riflessione sulla responsabilità dello scienziato in quella che si configura come un’opera di proto-fantascienza, ma anche l’idea rosseauiana dell’azione corruttrice della società, il tema del “doppio”, il pregiudizio che rifiuta il “diverso” sono solo alcuni aspetti di questo straordinario romanzo epistolare dalla complessa struttura narrativa.

Manoscritto di “Frankestein” (1816-17) conservato alla Bodleian Library di Oxford

Nel 1818, anno in cui Mary completò la prima stesura di Frankenstein, che venne poi pubblicato in forma anonima, gli Shelley approdarono sulle sponde del Lario e, incantati dal suggestivo paesaggio, cercarono un alloggio. Presero in affitto la Villa Pliniana vicino a Torno, allora in pessimo stato di manutenzione, per un breve periodo, ma poiché non si trattava di una sistemazione adeguata, proseguirono il loro itinerario italiano toccando Roma, Venezia, Firenze e Napoli. Dopo la tragica scomparsa di Percy, che fu preceduta da quella di due figli della coppia, Clara e William, la scrittrice visse per un anno a Genova, per poi rientrare in Inghilterra con il figlio Percy Florence.

La Villa Pliniana a Torno

Il lago di Como, tuttavia, non fu mai dimenticato da Mary, che lo rievocò più volte nella sua produzione letteraria posteriore. Nel primo capitolo della seconda edizione di Frankenstein, datata 1831, viene infatti inserita una “divagazione” di ispirazione lariana. Elizabeth, la futura moglie di Victor, che nella prima stesura è sua cugina, viene invece “trovata” dai genitori del protagonista durante un viaggio lungo le rive del lago di Como. Orfana di nobili origini, Elizabeth Lavenza viveva in un villaggio sul Lario presso una famiglia povera: la madre di Victor, incantata dalla grazia della bimba, decise di adottarla. Così Victor e Elizabeth crescono insieme come fratello e sorella per poi innamorarsi. In un’altra opera, The Last Man, scritta nel 1826, l’autrice descrive un gruppo di esuli britannici che, per sfuggire alla pestilenza, si rifugia per un breve periodo sulle sponde lariane.

Mary tornò sul Lario nel luglio del 1840 con alcuni amici e il figlio Percy per trascorrervi l’estate ed annotò le sue impressioni nel già citato Rambles in Germany and Italy in 1840, 1842 and 1843. Attraversarono la Manica da Dover a Calais, raggiunsero Parigi a bordo di una diligenza, intrapresero un lungo percorso toccando Metz, Coblenza, Magonza, Zurigo e alte località elvetiche e scesero fino a Chiavenna e Colico, dove arrivarono il 14 luglio dopo tre settimane di tragitto. Nel suo diario di viaggio, l’autrice dedica molto spazio alla traversata delle Alpi e alla straordinaria impressione che riceve dal paesaggio italiano:

“Tutti i viaggiatori italiani sanno cosa significa, dopo aver faticosamente risalito il versante alpino svizzero – tetro, spoglio, settentrionale – scendere verso l’Italia, Paese dell’eterna primavera. Il rododendro, in fitti cespugli, in piena fioritura, adornava i fianchi della montagna; poi, le pinete; poi, i castagneti; la montagna era spaccata in burroni boscosi; le cascate spargevano i loro spruzzi e diffondevano una dolce melodia; fiorita e verde, rivestita di splendore e dotata di abbondanza, l’Italia si mostrò a noi. Così, – e non scandalizzatevi di questa metafora, perché tutto è creazione di Dio – dopo la triste vecchiaia e il passaggio nauseante della morte, il santo apre gli occhi sul Paradiso”.

Panorama di Colico

Da Colico Mary prese il battello a vapore “Lario”, diretto a Cadenabbia, località prediletta dai turisti inglesi, anche se il suo intento era di stabilirsi a Bellagio. Si fermò al Grand Hotel Cadenabbia, che all’epoca era meglio conosciuto come Grand Hotel Bellevue; esso era stato fondato nel 1802, con il nome di Locanda Cadenabbia, come il primo albergo turistico sul lago. L’hotel era gestito dalla famiglia Brentani.  All’inizio del suo soggiorno, l’autrice non è molto soddisfatta di ciò che vede dalla finestra della sua camera: “il tempo è brutto, il lago agitato”; a sera il cielo è buio, le onde si infrangono rumorosamente contro la riva e Mary viene presa da un’insopprimibile angoscia. Ella prega affinché “nessuna catastrofe derivante da questo fatale elemento possa abbattersi su di me”.

Il giorno seguente la Shelley decide di non trasferirsi a Bellagio, ma di cercare alloggio a Tremezzo. Non trovando nessuna sistemazione conveniente per sé e per il suo seguito, viene persuasa dall’albergatore a trattenersi a Cadenabbia. Così può crearsi un cantuccio d’intimità in un angolo del salone, dove colloca “telaio da ricamo, libri e scrittoio”. Il suo intento è quello di leggere il più possibile in lingua italiana: “è molto piacevole immergersi nella lingua e nella letteratura della nazione dove si risiede”. Ogni mattina, al suo risveglio, la scrittrice può osservare la sponda del lago illuminata dal sole e, sull’altra riva, le “nere masse” delle Grigne dalle cime “nude, impervie, sublimi” che si stagliano contro il cielo; le loro “ombre scure precipitano, lungo gli scoscesi precipizi”, nelle acque. La sua routine quotidiana comprende l’attesa dell’arrivo, a mezzogiorno, del traghetto da Como, quindi il pranzo alle due e una passeggiata alle cinque.

Villa Carlotta a Tremezzo

Mary descrive poi i dintorni dell’albergo: un viale fiancheggiato di acacie conduce alla Villa Sommariva (Villa Carlotta); scendendo verso Como, si incontrano gli ameni paesi di Tremezzo e Bolvedro; più a nord c’è Menaggio, le cui rive rocciose sono ombreggiate da alberi di olivo. Sull’altra sponda è visibile Varenna, protetta da imponenti rilievi montuosi tra i quali spicca il Resegone, “dalla vetta dentellata come una sega”.  “Queste Alpi hanno l’aspetto più impervio e affascinante che io abbia mai visto” commenta la scrittrice. La sera “le ombre si alzano, prima oscurando le sponde, poi salendo lentamente sino a lasciare visibili le nude cime soltanto, che sono a lungo allietate dal fulgore dorato del sole morente. Poi i luminosi raggi svaniscono e, grigie e fredde, le granitiche vette si elevano additando le stelle che, una dopo l’altra, si vanno radunando”. I ritmi delle giornate sono distesi e Mary trova il tempo anche di osservare le abitudini degli abitanti locali:

“Ogni sera, al crepuscolo, le ragazze che lavorano alla filanda di seta lì vicino passano accanto al nostro albergo mentre percorrono la strada che conduce dal luogo di lavoro al loro villaggio; cantano mentre camminano e sembrano felici. Alcune di loro sono di bell’aspetto”.

L’autrice ama trascorrere molto tempo da sola, soprattutto di sera e, in linea con la sensibilità romantica, ama contemplare le bellezze naturali e i loro aspetti più oscuri, inquietanti, riconducibili all’estetica del “sublime”:

“Quando sono sola, la sera, spesso cammino verso Menaggio. Ho scelto un ritrovo tra le rocce vicino al bordo dell’acqua, ombreggiato da un bosco di ulivi. Provo un estremo piacere mentre guardo le ombre serali scalare le enormi montagne, fino a quando le cime di granito brillano liete e luminose e una quiete quasi sacra si diffonde sul paesaggio”.

Una delle sue attività principali è visitare le ville e i giardini della zona, in particolare Villa Serbelloni e Villa Melzi a Bellagio, attraversando il lago in una barca noleggiata dal figlio, e Villa Carlotta a Tremezzo. A Bellagio, all’epoca, l’attrazione principale erano i giardini realizzati da Alessandro Serbelloni nel 1802, che includevano sentieri che offrivano la vista su entrambi i rami del lago, su Varenna a est e su Menaggio a ovest. Anche Villa Melzi aveva un bellissimo giardino, ma Mary lo trovò troppo “formale” per i suoi gusti. Le piacquero molto anche Villa Carlotta e le sculture ivi conservate, anche se fu leggermente critica nei confronti delle opere di Antonio Canova. Commentando Amore e Psiche (statua tuttora esposta nella villa) afferma:

L’espressione dei loro volti è tenera e dolce; ma – lo confesso – non sono un’ammiratrice delle donne di Canova. Si dice che egli abbia avuto singolari opportunità di studiare la figura femminile; ma consideriamo la sua ‘Venere’, o qualsiasi altra delle sue statue femminili, accanto a quelle della scultura greca, e i suoi difetti colpiscono anche l’occhio della persona meno colta”.

“Amore e Psiche” di Antonio Canova a Villa Carlotta

Durante il suo soggiorno, la Shelley giunge anche fino a Como per visitare il Teatro Sociale. Per arrivarci, prese il battello a vapore “Lario”. Quest’ultimo fu il primo battello a vapore a pale a collegare Colico e Como. Fu costruito a Liverpool nel 1826, il corpo della nave era di quercia e il motore fu progettato e costruito da Watt. Le prime navi a vapore avevano lo svantaggio che la loro struttura in legno non era sufficientemente resistente per sopportare il peso dei motori, pertanto il “Lario” messo fuori servizio nel 1841, l’anno dopo la visita dell’autrice. A Blevio, inoltre, Mary vede la casa di Giuditta Pasta, forse la cantante lirica più famosa all’epoca in tutta Europa.

Interno del Teatro Sociale di Como

La tranquillità del soggiorno viene turbata qualche giorno più tardi dall’arrivo di uno squilibrato, un britannico che, sceso dal traghetto, si reca in prossimità del cancello della Villa Sommariva e da lì minaccia i passanti con una pistola. Si tratta di un insegnante di inglese, fuggito da Milano perché si credeva ricercato dalla polizia austriaca. L’intervento di alcuni suoi connazionali evita la tragedia e l’uomo, descritto da Mary come “scarno, con un viso malinconico e sfiorito e uno sguardo inquieto” viene rimandato in città sotto scorta armata. Dopo aver descritto alcuni ospiti dell’albergo, anch’essi britannici, l’autrice interrompe la sua narrazione. Non ci sono altre pagine dedicate al soggiorno lariano. Il 9 settembre Mary e il figlio noleggiano una barca privata per raggiungere Lecco. Visitano Bergamo e poi giungono a Milano, dove si separano dal resto del gruppo per aspettare l’arrivo di una lettera con il denaro per pagare il viaggio di ritorno. Questo ritardo li salva dalla drammatica esperienza subita dai loro compagni, che si trovano in difficoltà nell’attraversare il Passo del San Gottardo a causa di forti piogge che avevano causato frane e fiumi in piena.

“Il passo del San Gottardo”, dipinto di J.M. W. Turner (1803)

Il volume con il resoconto del soggiorno comasco di Mary Shelley venne pubblicato nel 1844. L’anno successivo, ella si ammalò gravemente e morì qualche nel 1851, a soli 53 anni, stroncata da un tumore al cervello. La sua esistenza fu tumultuosa, animata da grandi ideali e passioni e funestata da intensi dolori e perdite, ma le settimane trascorse in territorio lariano offrirono qualche momento di pace e serenità al suo animo tormentato.

UNA PRECISAZIONE:

questo articolo costituisce l’ampliamento e la rielaborazione di un precedente articolo pubblicato dalla sottoscritta sul CORRIERE DI COMO nel 2000.

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