L’ultimo romanzo di Umberto Lucarelli rievoca un episodio giovanile in cui lo scrittore, insieme ad altri cinque compagni, venne arrestato e brutalizzato dalla polizia in seguito ad accuse infondate

Scrivere per ritrovare il senso di quanto ci è accaduto, per passare attraverso una sofferenza devastante, dopo la quale nulla è più stato come prima. Scrivere, ritornando su un periodo fatidico della propria esistenza più e più volte, con un’urgenza espressiva che attanaglia e che fa scaturire ricordi sempre più precisi e dettagli dolorosi, affilati come coltelli, contundenti come le percosse ricevute ingiustamente.
Umberto Lucarelli, prolifico autore, continua a scrivere a ritmo serrato: nel 2023 sono usciti tre suoi romanzi, Affanno, Montecristo – Una catastrofe o una salvezza ed Erstfeld – In treno. Il suo ultimo lavoro, appena pubblicato da Milieu Edizioni, si intitola Sei giorni troppo lunghi e ripercorre un tratto di vita che era stato già oggetto di narrazione in altre sue opere.
I “sei giorni” del titolo (una settimana senza domenica, potremmo dire) sono quelli in cui lo scrittore, insieme ad alcuni compagni del Collettivo Autonomo Antifascista Barona di Milano, nel febbraio 1979 era stato arrestato e torturato dalla polizia per infondate accuse di omicidio e costituzione di banda armata, per poi essere rilasciato. La circostanza, indubbiamente una di quelle che lasciano tracce indelebili, era già stata rievocata da Lucarelli in passato: la bozza di Sei giorni, rimasta a lungo nel cassetto, aveva dato infatti vita al suo primo romanzo, Non vendere i tuoi sogni, mai. Ma il racconto dell’arresto e delle vessazioni subite ritorna anche in Ser Akel va alla guerra e in Vicolo Calusca, tutti testi che, insieme a Gianmariavolonté, vogliono indagare, da diversi punti di vista ma con il vissuto dell’autore sempre al centro, il Movimento del ’77 e i sogni, le aspirazioni, le rivendicazioni di quella generazione, con la loro successiva implosione.

È Umberto stesso che, nell’introduzione a Sei giorni, dichiara l’assoluta necessità di tornare sull’argomento, rimettendo mano al vecchio manoscritto per rendere giustizia a se stesso e a chi aveva condiviso con lui quei momenti:
…è quindi urgente scrivere di nuovo, fissare quei fatti, quei vissuti, che sono accaduti realmente, che fanno parte della storia di un certo periodo che è stato denso, è stato profondamente forte, ed è, fino a prova contraria, tuttora dentro, ben dentro a quelli che, nonostante tutto, non hanno venduto i propri sogni. Non li hanno venduti. Mai.
Il libro procede con una narrazione veloce, incalzante e a tratti affannosa, a voler evocare il senso di panico, di costrizione, di ansia avvertita in quei giorni convulsi, ed è diviso in due parti. La prima si snoda lungo cinque capitoli che portano il nome di altrettanti protagonisti – Fabio, Roberto, Giovanni, Simone, Furio. Sono quattro ragazzi della Barona- tre giovanissimi, tra i quali l’intellettuale del gruppo e un cugino più grande, trentenne – più un altro militante che non fa parte del collettivo ma che viene connesso agli altri a causa di una “soffiata”. Cinque voci, cinque racconti intensi, che lasciano senza fiato come un pugno assestato violentemente nello stomaco. Dopo l’arresto, Fabio viene soltanto interrogato, mentre gli altri subiscono ogni genere di torture, dalle “semplici” percosse alla bruciatura dei genitali e al waterboarding.
Nella seconda parte del volume gli eventi di ciascuna delle sei giornate, dall’arresto alla liberazione, vengono ripercorsi nuovamente, e in questo caso l’io narrante è uno solo, quello di Umberto, mentre gli altri ragazzi condividono con lui le esperienze vissute: il ricordo delle sevizie subite, l’isolamento in cella, i successivi momenti di reclusione in cui si può comunque dialogare e farsi forza vicendevolmente e poi le canzoni, i pasti, l’ora d’aria… tutti tentativi per restare umani. Finché non arriva un telegramma che annuncia la scarcerazione, recitando “Dovere di tutti è essere liberi”.

Manifestazione contro il sistema carcerario – Bologna, 1977

L’epilogo è affidato alla viva voce dello stesso Umberto, che esce allo scoperto per raccontare in prima persona pensieri e sensazioni che gli affollavano la mente il cuore il giorno in cui venne liberato:
…ne era trascorso di tempo eppure ricordavo nitidamente quello che era successo, ricordavo le espressioni, le facce, le parole, le urla, i suoni, le sensazioni provate per la perdita della libertà che mi faceva mancare il respiro, che mi toglieva il fiato e le parole, non mi veniva più la voce e la gola si chiudeva come in una morsa, ricordavo bene quelle emozioni, quelle vissute davanti all’ingiustizia, l’indignazione e il soffocare e la grande paura di essere in mano a forze superiori che potevano disporre di te impunemente, la sofferenza inflitta a noi tutti, a quelli a noi vicini, agli amici, ai parenti, a quelli che ti volevano bene…
Scrivere diventa così un atto doveroso verso se stessi, verso gli altri, verso la società che deve sapere e ricordare ma è, soprattutto, un gesto quasi terapeutico, per liberarsi dall’angoscia, sublimare il rancore e rielaborare quel drammatico vissuto:  
quella violenza, insieme ad altre, non se n’è andata più, è ancora qui, dentro di me e ho dovuto incontrarla e affrontarla di nuovo, dopo così tanti anni, in queste pagine, con l’intento di farla andar via, di provare a liberarla, lasciarla dietro di me come un uscio spalancato, e allontanarmi finalmente con lo scrivere che è la mia cura…

Milano, Via Meda, 1979 – Foto Fondo Virgilio Carnisio

La lettura di Sei giorni troppo lunghi, oltre a suscitare sdegno ed empatia, riporta inevitabilmente alla mente recenti eventi di cronaca: i casi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e Giuseppe Uva, tutti deceduti in circostanze mai chiarite e presumibilmente a causa delle percosse ricevute durante controlli e interrogatori da parte della polizia, e la terribile notte alla scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001, un autentico massacro che vide più di ottanta persone picchiate e ferite dagli agenti.
La domanda che affiora alla mente del lettore, scorrendo queste pagine, è dunque quella che si pone anche Simone, uno di protagonisti:
Alla fine, quello che mi sono sempre domandato, e non solo me lo sono domandato io … e di nuovo ora a distanza di molti, moltissimi anni, è stato il pensare a come e perché potessero essere stati così feroci, così violenti contro di me, se nulla io avevo fatto loro, niente di personale contro le loro famiglie, i loro corpi, la loro vita… da dove poteva provenire tutto quell’odio, quella rabbia, quella cattiveria?
Un interrogativo rimasto senza risposta, come senza risposta sono stati, nella maggior parte dei casi, gli omicidi e i soprusi dovuti agli abusi di potere da parte di aguzzini quasi sempre assolti o coperti da un manto di omertà. Sei giorni troppo lunghi, con coraggio, denuncia questa triste realtà, che ora come cinquant’anni fa continua purtroppo a dare luogo a drammatici episodi di questo genere. Come ribadisce Pasquale Abatangelo nella postfazione al libro, “la tortura è una pratica indegna di un paese civile che si pretende democratico, un cancro che deve essere assolutamente estirpato dal corpo sociale”.

Incidenti in Largo Cairoli durante una manifestazione, Milano,1972foto di Uliano Lucas

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