Dai Clash al nuovo album “Tra silenzi e spari”, il frontman dei Gang si racconta

Ho incontrato Marino Severini per la prima volta esattamente un anno e mezzo fa: era il 16 gennaio 2022 e al Teatro della Cooperativa di Milano veniva rappresentato “Il lavoro – La conquista della dignità”, uno spettacolo di narrazione di Daniele Biacchessi con la colonna sonora affidata ai fratelli Severini, con canzoni come Sesto San Giovanni, Concetta, Non finisce qui. In quell’occasione dissi al frontman dei Gang che mi sarebbe piaciuto intervistarlo. Lui si mostrò subito disponibile ma, per vari motivi, nonostante io abbia poi avuto modo di rivederlo in diverse altre circostanze (tra le quali due concerti in memoria di Damiano “Gnappo” Zorzo, di cui ho raccontato anche qui nel blog), l’intervista ha avuto luogo soltanto qualche settimana fa, a fine maggio.

I fratelli Severini nello spettacolo di Daniele Biacchessi “Il lavoro, la conquista della dignità”

La location in cui si è tenuta non è casuale, anzi, è particolarmente significativa: si tratta del “Clash City Rockers Café” di Sedriano (MI), un bar-museo dedicato al quartetto guidato da Joe Strummer, in cui quella sera Marino e Sandro hanno tenuto un live acustico. Come è risaputo, Joe “lo strimpellatore” è considerato da Marino un nume tutelare, colui che ha suscitato in lui il desiderio di formare una rock band e di imbracciare la chitarra come un’arma per lottare contro le ingiustizie del mondo. Così, tra pareti ricoperte di “pezzi” di storia della musica (locandine, album, cimeli dei Clash appartenenti alla collezione del titolare del locale, Tiziano Gerli), ha finalmente avuto luogo la nostra chiacchierata.

Il Clash City Rockers Café di Sedriano, un autentico tempio dedicato alla band di Strummer

Ciao Marino, sono contenta di poterti intervistare e di poterlo fare proprio qui, in un ambiente dove ogni singolo elemento di arredo rimanda ai Clash, visto che come ben sappiamo si tratta di un gruppo per te fondamentale… anche se lo hai già fatto tante volte, vorresti raccontarci come “it all began”?

Io la racconto sempre alla stessa maniera: c’è chi nella vita gli è toccato Elvis Presley, chi San Francesco, chi Che Guevara e chi, come noi, Joe Lo Strimpellatore. Tutto è iniziato nel 1980. Prima di allora avevamo già visto diversi concerti di jazz, pop, rock di artisti italiani e stranieri, ma quando ci siamo trovati davanti i Clash, a Piazza Maggiore a Bologna, io mi sentii come San Paolo, folgorato sulla via di Damasco. Capii che ero nel momento giusto al posto giusto. Noi venivamo dagli anni Settanta, dalle aggregazioni giovanili intorno alla politica, che ormai erano finite. Tra l’altro era la prima volta che tornavamo a Bologna, la città degli scontri, dei carri armati, dei tre giorni del Movimento. Cercavamo qualche cosa che ci permettesse di “rimetterci in mezzo”, di dire la nostra sulla realtà, di creare delle relazioni, ma in modo diverso. Da lì ripartì la rivolta dello stile, del punk, per tornare in pista con i nostri amori di sempre: chitarra, basso e batteria.

Foto tratta da libro “Bologna 1980 – Il concerto dei Clash a Piazza Maggiore nell’anno che cambiò l’Italia”

Fino a quel momento non sapevamo che cosa ci servisse per riprendere la lotta, ma in quella circostanza capimmo che la spinta sarebbe arrivata da quel tipo di musica. Per il caos che c’era in quella piazza potrei dire che quello fu il “peggior” concerto che avevo visto in vita mia, però la visione di Strummer fu “la luce”. Capimmo che quello che avevamo sognato fino a quel momento “si poteva fare”. Così io e Sandro mettemmo su una band: anche lui veniva dalle esperienze dei circoli giovanili, ma in quel momento esse erano terminate e lui era un “cane sciolto”. Del resto molti giovani avevano perso quel senso di appartenenza e si erano rifugiati nell’eroina o nella depressione. I Clash, poi, diventarono per noi qualcosa di più, un autentico modello da seguire. Era il rock che tornava ai suoi splendori, ma senza fronzoli, né spettacolarizzazione e neppure spartiti.

I fratelli Severini a Magenta nel concerto in ricordo di Damiano “Gnappo” Zorzo con Adelmo Cervi, Modena City Ramblers, Renato Franchi & His Band, Alessio Lega e altri artisti

Ripercorrendo la vostra quarantennale carriera, nel corso della quale avete registrato quattordici dischi (senza contare quello in arrivo, “Tra silenzi e spari”), si nota un lungo periodo, tra “Controverso” (2000) e “Sangue e cenere” (2015) in cui non avete realizzato album composti di soli inediti, ma avete comunque dato vita a diversi progetti. Che cosa è successo, in quel lasso di tempo, che vi ha condotto a questa scelta?

Avevamo chiuso con la casa discografica, una major, con l’agenzia di promozione, con il mondo dello show business. Era una realtà che non ci apparteneva. Scegliere l’indipendenza artistica ed economica era come essere “tornati a casa” e, sulla via del ritorno, era importante decidere come valorizzare le esperienze che avevamo accumulato negli anni e con chi condividerle. Abbiamo realizzato un disco sul mondo contadino, “Il seme e la speranza”, che ci ha permesso di rincontrare” vicende che facevano parte del nostro bagaglio, come ad esempio quella di Maria Cavatassi, e ovviamente le storie della Resistenza, da mettere insieme a figure come quelle del subcomandante Marcos o di Chico Mendez, per realizzare idealmente un umanesimo del mondo contadino. Altra esperienza è stata quella con “La Macina”, gruppo fondato da Gastone Pietrucci, che si occupa della canzone popolare marchigiana. Intraprendere questi percorsi legati alla nostra terra di origine è stato un tornare alle “radici” per riprendere le “ali”. Nel frattempo ci siamo dedicati soprattutto ai concerti poiché abbiamo voluto ristabilire la relazione con la nostra comunità. Quando eravamo legati alla casa discografica e alle agenzie di promozione, i costi dei nostri live erano notevolmente elevati e tutta una serie di realtà non potevano permettersi di farci suonare; dopo la scelta di diventare indipendenti abbiamo potuto andare in giro a suonare anche in due o in formazione ridotta e nei contesti più piccoli. Concludo dicendo che ci sono anche motivi personali per questo rallentamento: in quegli anni io ho avuto una figlia e ho ristrutturato una casa in campagna insieme a mio padre.

Visto che hai citato gli affetti familiari, vorrei osservare che a partire da “Controverso” in tutti gli album si apre una finestra sull’intimità, vale a dire ci sono canzoni incentrate sui sentimenti: Io e te, Mia figlia ha le ali leggere, Amami se hai coraggio… che cosa vi ha portato in questa direzione?

Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza: dopo i primi album noi rischiavamo di essere messi nella categoria dei “duri e puri”, dei “guerrieri del rock”, degli alfieri del combat rock, eccetera. Questa logica in realtà non ci appartiene. O meglio, quarant’anni fa, dopo la “chiamata” dei Clash, bisognava mettersi l’armatura e arruolarsi volontari nell’esercito del rock, anche per via di una subcultura in cui l’ideologia prevaleva su tutto; era necessario, idealmente, salire in cima a una montagna per far sentire la propria voce, per diffondere i propri messaggi anche attraverso i media. Ma dopo questa fase abbiamo capito che era il momento di aprire dei varchi sul “privato” in cui far prevalere il sentimento. Questo non è in contraddizione, bensì è in linea con la nostra formazione, quando una volta si affermava che “il personale è politico”. È dunque divenuto importante, a un certo punto, riaffermare la “politicità” dei sentimenti e ribadire un concetto fondamentale, per dirla con Pasolini: “la rivoluzione non è che un sentimento”. Del resto la componente “affettiva” è un filo che lega insieme anche brani come La pianura dei sette fratelli, Mare nostro, Vorrei, dove si fa leva anche sull’aspetto della commozione.

Sandro e Marino con Gianluca Spirito al Clash City Rockers Café di Sedriano

Questo è sicuramente un periodo di grande attività per voi e intorno a voi: si è appena concluso il crowdfunding per la realizzazione del vostro album “Tra silenzi e spari”; è recentemente uscito il libro “Alle barricate – Il libretto rosso dei Gang” di Lorenzo Arabia, Gianluca Morozzi e Oderso Rubini; il 16 giugno, infine, ha visto la luce “Quel giorno Dio era malato”, un tuo libro di memorie… questa “concentrazione” di pubblicazioni è stata voluta o si tratta di una coincidenza?

Partiamo dal disco: come abbiamo avuto occasione di dire in altri frangenti, le canzoni degli album CGD/WEA, da “Le radici e le ali” a “Controverso”, non vengono ristampate da più di trent’anni e con “Tra silenzi e spari” possiamo “riappropriarci” almeno di 12 brani e ridare loro nuova vita, anche alla luce delle esperienze degli ultimi tempi. Per usare una metafora, allora erano “signorine”, adesso sono delle signore che mantengono intatto il loro fascino. Nell’album ci saranno i musicisti che hanno suonato negli ultimi tre lavori in studio e il produttore sarà, ancora una volta, Jono Manson. Tra le ricompense previste per i nostri sostenitori (coloro che hanno aderito sono stati quasi 1500) ci sono poi altri due CD: il primo si intitola “Quanto amore – Omaggio a Claudio Lolli” e contiene 8 brani del grande cantautore reinterpretati per l’occasione in una nuova veste acustica. Il secondo CD “extra” invece si chiama “Re-Incanto” e conterrà versioni inedite e semi-acustiche di brani tratti da “Sangue e Cenere” e “Ritorno al Fuoco”.

Quanto al volume “Alle Barricate”, Morozzi e Arabia avevano già scritto un libro su di noi 25 anni fa, “Le radici e le ali”, e inizialmente volevano realizzarne una nuova versione aggiornata per il ventennale dell’uscita, ma poi la pubblicazione è slittata ed è uscito adesso. Poiché l’intento di questa iniziativa editoriale è quello di fare un sunto di tutta la nostra carriera, possiamo dire che capita a proposito, dato che il volume si è reso disponibile in coincidenza con il nostro intento di “riportare a casa” le canzoni con il nuovo album. In effetti è un’operazione non gestita da noi, alla quale però abbiamo collaborato attivamente fornendo il materiale che ci hanno richiesto. È fondamentale tenere traccia di ciò che si fa, perché questo dà l’idea del movimento, del percorso compiuto, quindi il fatto che ci siano più pubblicazioni è importante, poiché in questo modo è possibile mettere in evidenza il punto di vista di diverse persone su tutto ciò che ci riguarda. Infine, sono molto emozionato per l’uscita di “Quel giorno Dio era malato”. Oltre a tanti episodi legati alla mia vita “on the road” con i Gang, nel libro racconto per la prima volta molte storie alle quali sono particolarmente legato, soprattutto quelle della mia “patria”, l’Imbrecciata. Molti di questi racconti mi hanno “riportato a casa”, a quand’ero bambino. Alle mie memorie, poi si intrecciano ovviamente le canzoni dei Gang. Le storie narrate parlano della dignità del mondo popolare contadino e operaio, di solidarietà, di emigrazione e riscatto, di morti sul lavoro, di militanza politica, di spiritualità e Resistenza. Sono parte di un immaginario di lotta, ribellione e ricerca della felicità e della bellezza.

Visto che hai parlato di bellezza e di ricerca della felicità, vorrei concludere con questa domanda: l’utopia è un diritto? L’utopia è davvero possibile? Credo che la tua risposta sarà affermativa, ma vorrei che fossi tu stesso a spiegarlo…

L’utopia è indispensabile, altrimenti nessuno farebbe un passo. Noi andiamo sempre verso la luce e l’utopia è ciò che riscatta il male e gli orrori dell’umanità. I partigiani, ad esempio, hanno riscattato gli orrori del fascismo con la Resistenza e la Costituzione. Il più grande genocidio della storia, quello degli indios in America Latina, è stato riscattato dai vari movimenti di liberazione. Il genere umano ha sempre uno sguardo rivolto verso la propria interiorità e nel contempo verso la luce. La luce passa anche attraverso una crepa, come diceva Leonard Cohen in Anthem. Si va sempre in quella direzione, e questa è l’utopia. E il compito del rock ‘n roll è anche quello di dare voce agli ultimi e di riscattarli. A questo proposito, nel nostro ultimo disco Ritorno al fuoco abbiamo parlato di ben quattro utopie che si sono realizzate e sono entrate a far parte della storia dell’umanità. Il primo esempio è rappresentato dalla regione del Rojava, che abbiamo voluto raccontare nel brano Rojava libero: nel nord-est della Siria si è realizzata una vera e propria utopia, un autentico “miracolo sulla Terra” basato sul confederalismo democratico, un modello che è esattamente l’opposto dello Stato-nazione considerato fino ad ora dall’Occidente.

Il secondo esponente dell’utopia è Mimmo Lucano, protagonista di Un treno per Riace, che ha fatto della sua città il luogo dove applicare un nuovo modello vincente di accoglienza per i tanti migranti sbarcati lungo le coste italiane ed è diventato un eroe del nostro tempo, avendo fatto dell’integrazione la sua bandiera. E poi c’è Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay, che ha fatto suo lo slogan “la felicità al potere”. Infine Azadi, una parola di libertà, che dal Nordafrica al Medioriente mette insieme moltitudini di persone che vanno verso la luce, verso il riscatto. “Azadi” è un inno, una preghiera, un grido che ha invaso le strade del Kashmir contro l’occupazione indiana e il nazionalismo indù, ma è anche il canto di chi difende la propria terra e nella resistenza coltiva la speranza che l’indomani sarà migliore della giornata appena trascorsa. Ma l’utopia, ripeto, è in ognuno di noi: la possiamo chiamare anima, spirito, vento, ed è quella forza, quell’ispirazione che ci permette di scegliere da che parte andare. E il rock è un linguaggio che ci aiuta ad andare verso la luce e verso l’utopia.

Con queste bellissime parole credo che possiamo salutarci. Non vedo l’ora di leggere il tuo libro e di ascoltare le canzoni di “Tra silenzi e spari” nella loro nuova veste… ci rivedremo sicuramente “on the road” per qualche data del vostro tour estivo! Grazie di cuore… 

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