La pièce del 1977, basata largamente sull’improvvisazione, viene ricordata da alcuni dei suoi protagonisti

Fra tutte le più o meno recenti proposte di teatro totale, relativo, assoluto, liturgico, gastronomico, straniato, spontaneo, intellettuale, intellettualista, spontaneista, rigoroso, aperto, off, ufficiale, sotterraneo, la proposta di Battiato è quella che più liberamente esce dagli schemi della forma e dalle sbarre della stupidità.

Così si esprimeva Carlo M. Cella sulla rivista Gong nel giugno 1977 a proposito di “Baby Sitter”, lo spettacolo di teatro sperimentale messo in scena da Franco Battiato insieme ad un nutrito gruppo di attori, artisti e musicisti nella primavera di quell’anno a Roma, Milano e in altre città d’Italia. La pièce venne rappresentata inizialmente dal 17 al 19 febbraio 1977, nel Teatro Out Off di Milano, ancora in fase di “work in progress” e provvisoriamente intitolata “Azione teatrale” per poi debuttare il 15 marzo 1977 a Roma, al Teatro in Trastevere, dove venne replicata fino al 20 marzo.  In seguito andò nuovamente in scena a Milano, il 16 aprile al Salone Pierlombardo, e girò altre città d’Italia, come Torino, Pistoia, Monza, Legnano. Battiato era accreditato alla regia, alla musica e ai testi insieme a Peppo Delconte.

Il teatro Out-Off di Milano nel 1977

Il “pre-testo” per la messinscena fu un poemetto dello stesso Delconte, ispirato alla “crociata dei bambini” del 1212, un evento tra storia e leggenda secondo il quale un gruppo di ragazzi, guidati da un pastorello dodicenne di nome Stefano, tentò di partire da Marsiglia verso la Terra Santa. Due delle sette navi sulle quali essi si imbarcarono affondarono durante una tempesta, mentre i superstiti furono venduti come schiavi. Si tratta, quindi, di una vicenda di innocenza tradita, della quale però non resta traccia – se non sotto forma di frammenti – nella rappresentazione teatrale.

Una scena da “Einstein on the Beach” (1976) di Bob Wilson e Philip Glass

L’idea per “Baby Sitter” nacque dall’interesse di Franco per uno spettacolo di Bob Wilson e Philip Glass intitolato “Einstein on the Beach”, a cui egli aveva assistito alla Biennale di Venezia nel 1976, tuttavia il prodotto che ne scaturì prese un’altra direzione, difficilmente collocabile nell’ambito del teatro sperimentale. Si trattava di un lavoro brevissimo (circa 50 minuti) e “rigorosamente non professionale e non professionistico, coerentemente all’ideologia artistica di Battiato”, come spiega Cella nella succitata recensione. Gli interpreti erano persone vicine a Battiato, a vario titolo, musicisti, amici, collaboratori: tra i tanti, citiamo Antonio Ballista, Angelo Carrara, Alfredo Cohen, Gianfranco D’Adda, Claudio Rocchi, Paolo Scarnecchia, Lino “Capra” Vaccina, Maurizio Piazza, Mariella Fumagalli, Paolo Raimondi e Filippo Destrieri. La locandina dello spettacolo fu invece realizzata da Francesco Messina.

Il lavoro mancava, apparentemente, di coerenza e non c’era una colonna sonora vera e propria a fare da elemento unificante. Come afferma Carla Spessato nel volume Franco Battiato – Come un incantesimo  – Le storie dietro le canzoni (ed. Giunti, 2021), “Baby Sitter si concentra sul suono, che tiene uniti vari frammenti di situazioni abituali estrapolate dal loro contesto per essere riutilizzate in chiave artistica. Il palco diventa un luogo di confluenza di linguaggi e forme differenti, in modo molto vicino al concetto di ready-made formulato da Marcel Duchamp… In alcune scene compaiono semplicemente alcuni attori che ruotano in continuazione davanti e dietro a un tendaggio con un’interminabile passeggiata, accompagnati dal suono di un pianoforte, un violino e una fisarmonica, recitando una sorta di litania in cui richiamano in sequenza nomi di artisti del passato, idea che Battiato riprenderà qualche anno dopo in Genesi”.

Una scena di “Baby Sitter”: a sinistra Paolo Raimondi, a destra Gianfranco D’Adda

Nel suo libro Franco Battiato – Soprattutto il silenzio (ed. Giunti, 2010), nella sua breve analisi dello spettacolo Annino La Posta osserva: “Alcune parti delle musiche scritte per l’occasione, che in scena sono eseguite da Antonio Ballista […] e dal soprano Alide Maria Salvetta, finiscono rielaborate nel secondo lato del nuovo disco”. Il riferimento è a Cafè-Table-Musik, lato B dell’album “Battiato” del 1977; altri brani, invece, resteranno inediti. In un articolo comparso sul “Corriere della Sera” del 29 marzo 1977, il lavoro viene invece descritto come un’opera nella quale “immagini, rapporti e situazioni si formano e si sviluppano in una pluralità di dati, a volte ironici, a volte sentiti, sempre allusivi… c’è il gusto dell’analisi del gesto del comportamento… Più che sulla politica, dunque, un discorso sull’individuo”. In un approfondito articolo pubblicato nel numero 80/81 della rivista MusicBox e intitolato Battiato – Sulle corde del genio: dai dischetti di plastica agli armonici, Pio De Bellis si esprime invece in questi termini riguardo a “Baby Sitter”: “L’opera si concentra sul suono, concepito per mezzo del readymade, analisi dadaista che estrapola dall’abituale contesto una qualsiasi espressione oggettiva o di linguaggio, per riutilizzarla in chiave artistica. L’analisi sonora passa, semplicemente, attraverso un pianoforte, un violino e una fisarmonica, e vede i suoi momenti salienti in un interminabile via vai nella passeggiata sul palco degli attori che ruotano in continuazione dietro un tendaggio per rientrare sulla scena”. Il medesimo articolo riporta anche un commento di Maurizio Piazza: “Era un insieme di quadri viventi che associavano immagine, movimento e musica, con quest’ultima a fare da collante. Tutto aveva un andamento musicale, anche i testi non erano propriamente teatrali, avevano uno sviluppo sonoro più che recitativo. Era proprio questa caratteristica che rendeva originale la rappresentazione. Non a caso “Baby Sitter” è presentato come un lavoro di musica teatrale”.

In una intervista pubblicata il 4 novembre 2021 sul sito di Rolling Stone (https://www.rollingstone.it/musica/interviste-musica/battiato-era-il-vero-padrone-della-voce/594126/) il tastierista Filippo Destrieri, che partecipò ad alcune repliche, ricorda: “Suonavo delle cose strane, un pianoforte preparato, un synth, gli strumenti che avevo. E poi un Revox, mandavo dei nastri. Era molto improvvisato anche, eh? Moltissimo improvvisato, con quello che si aveva a disposizione si faceva. Mi ricordo che sono uscito in scena una volta e ho parlato tedesco (ride). Era divertente e poi eravamo giovani”.

Filippo Destrieri in uno scatto di Orazio Conte

Nell’articolo su Gong Cella descrive anche, in particolare, “una bellissima scena a due, nella quale un violino fa nascere e morire senza apparente significato una banale frase, mentre sul lato opposto seduto su di una sedia un personaggio gaiamente farneticante recita un monologo in stretto dialetto siciliano, anch’esso ciclicamente irrisolto”. Aggiunge: “Battiato aveva pronta nel cassetto una bellissima ouverture alla quale ha stranamente rinunciato in favore di una più asettica, ma anche più convenzionale ouverture wagneriana registrata su nastro e ‘mandata’ a sipario chiuso”. L’autore evidenzia come la lunga preparazione alla messinscena abbia fatto sì che, con “masochistica ed autoflagellante rinuncia”, la maggior parte dello spettacolo prevista in origine fosse stata tagliata a favore di una performance molto breve, che però conservava “una ricchezza acutissima e stimolante”. E prosegue nella sua accurata disamina: “Tutto si svolge con finta noncuranza, gli attori si muovono apparentemente senza un canovaccio dando luogo a disparati ‘quadri’ contenenti diversi simboli, contestando ciascuno un diverso ‘mito’. Non manca nemmeno la presenza in prima persona di Battiato: un monologo eccitante ed acuto dove c’è perfino la ‘mossa’ («fregata a Nijinsky»), una specie di récital con lo spirito d’un avanspettacolo ironicamente culturalizzato che mette alla gogna la Cultura, la Musica, l’Avanguardia, l’Accademia, la Nuova Scienza ed anche la Gaja Scienza”.

Il prologo di “Baby Sitter”

Come nei concerti dei tour di “Fetus” e “Pollution”, Battiato & soci non mancano di spiazzare gli spettatori con le loro “trovate”. Così descrive Cella il coinvolgimento dei presenti: “Unica, vera e propria musica è una lunga, fissa ed atemporale ‘composizione’ per battito di piedi, contestuale ad una scena dove una simbolica passeggiata eternamente itinerante costringe lo spettatore-ascoltatore a lasciarsi andare in un piccolo viaggio fuori dalla coscienza, in una specie di spazio ritagliato fuori dalla cognizione del tempo”. E queste, secondo l’autore, le sconcertate reazioni del pubblico: “Alla fine della rappresentazione la gente comincia a divertirsi, una pop-audience comincerebbe a far paura ritmando «more, more»; nessuno si alza; nessuno riesce a ricalarsi nella realtà dopo aver goduto ed essere appena riuscito ad entrare in una strana, nuova finzione; tutti si guardano l’uno con l’altro («da Battiato ci si può aspettare di tutto»); alla fine se ne va la gente. Se ne va quando, attraverso il sipario mai più chiuso dall’inizio dello spettacolo, gli attori si rivestono e se ne vanno, dopo la realtà della recita, per ritornare alla recita della realtà”. Cella conclude il suo lungo ed articolato excursus esprimendo qualche perplessità riguardo alla componente dell’improvvisazione, che aveva un peso notevole nell’economia dello spettacolo: “nel convincerci e coinvolgerci nella realtà della finzione è necessariamente maestro chi è padrone nella finzione della realtà”.

Paolo Scarnecchia, uno dei partecipanti alla messinscena, in un suo scritto intitolato Un arabo mitteleuropeo contenuto nel libro Battiato-Testi e spartiti (Gammalibri, 1984), mette in risalto l’aspetto più bohèmien dell’esperienza: a Roma “le lenzuola per le scenografie ce le portavamo da casa, molti del gruppo alloggiavano a casa nostra (a casa di Irene si mangia e si beve) – nella ricchezza di idee e di situazioni paradossali e imprevedibili. La più imprevedibile di tutte fu quella dello spettacolo annunciato dai cartelloni e dai tamburini dei giornali, che negli ultimi due giorni della programmazione scomparve. Scomparve nel senso che il gruppo era ripartito per l’impossibilità di sopravvivere coi magri incassi serali, che non bastavano nemmeno a tacitare le proteste degli stomaci già allenati e addestrati a una certa durezza di vita a causa di diete macrobiotiche e vegetariane”.

Poiché della performance non esistono registrazioni, particolarmente interessanti sono le testimonianze dirette di alcuni dei protagonisti, come Gianfranco D’Adda e Paolo Raimondi. Il batterista concorda con Scarnecchia nell’affermare che il gruppo dei performers soffriva spesso la fame: “Ricordo che io e Paolo ce ne andavamo in giro per Roma, ma non avevamo un soldo per comprare da mangiare, e quindi una sera entrammo in una rosticceria, attirati dal delizioso profumo, a chiedere un pezzo di pollo arrosto gratis! Per questo lavoro, infatti, non percepivamo alcun compenso.” Quanto allo spettacolo, D’Adda conferma la peculiarità “estemporanea” dell’operazione artistica: “Salivamo sul palco ed improvvisavamo l’azione scenica, stimolati dai suggerimenti di Franco. Il tutto era basato principalmente sulla gestualità”.

Gianfranco D’Adda e Paolo Raimondi in due immagini recenti (photos by Mary Nowhere)

Paolo Raimondi considera l’esperienza come altamente formativa per il miglioramento delle proprie competenze attoriali e ribadisce la cifra stilistica, basata sulla sperimentazione e l’improvvisazione, della pièce: “In Baby Sitter sono stato soprattutto un attore gestuale, in qualche modo cosciente del valore sperimentale ed espressivo di una gestualità non codificata, che per me diventava, di volta in volta, un linguaggio nuovo. Non c’era quasi mai una certezza di conclusione scenica che potesse garantire una esatta riproducibilità; da un momento all’altro poteva cambiare tutto, perché il percorso era sempre pieno di imprevisti e scoperte, dovute alla genialità artistica di Franco. Lavorare in questo modo era faticoso, spesso destabilizzante, ma sempre affascinante; era richiesta una continua attenzione al valore e alla ‘sensatezza’ di ciò che si produceva; bisognava essere sempre pronti a cambiare, a rinnovarsi, a ripartire daccapo se necessario, a non attaccarsi a quello che si era già fatto, bisognava essere pronti a non schematizzare, pronti ad affrontare nuove situazioni da gestire artisticamente”.

“In Baby Sitter il teatro veniva ridotto alla sua essenziale primordialità rituale, ad una composizione attiva di spazio, rappresentazione e spettatori. Con questa consapevolezza si poteva ‘rimettere tutto in gioco’ e vedere cosa poteva succedere; si costruiva su un terreno rinnovato e continuamente rinnovabile attraverso l’arte scenica, in una continua sperimentazione avente uno scopo di scoperta e comunicazione”: la conclusione dell’attore rescaldinese riassume efficacemente la portata e la carica innovativa di questa “impresa” di Franco Battiato. Conclusa l’esperienza teatrale, quell’anno il cantautore pubblicò l’album “Battiato“, che come si è detto conteneva alcune musiche eseguite durante lo spettacolo, e poco dopo incontrò Giusto Pio, musicista con il quale instaurò, come è noto, un importante sodalizio. Con Pio, Destrieri ed altri collaboratori (Alberto Radius, Donato Scolese) e le splendide voci di Alice e Giuni Russo, Franco portò poi in scena, nel 1981, una rappresentazione che aveva molti elementi in comune con “Baby Sitter”, intitolata “Cinema Astra“. Nei decenni successivi l’artista si cimentò occasionalmente con il teatro e con il cinema, mantenendo sempre una forte vocazione alla sperimentazione, ma “Baby Sitter” resta, come dimostrano le testimonianze dei suoi protagonisti, un fenomeno unico e, a suo modo, rivoluzionario.

NDR Alcune delle immagini utilizzate e delle informazioni riportate provengono dall’articolo https://battiatoperduto.wordpress.com/2014/06/12/baby-sitter/ . Si ringrazia il sig. Stefano AbulQasim: https://abulqasim63.wordpress.com/author/abulqasim63/

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